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Quelle stroncature dei grandi pianisti

 
Emanuele Arciuli

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Emanuele Arciuli

Quelle stroncature dei grandi pianisti

Dal Fabbro era un flâneur, un aristocratico intellettuale che si occupava di musica e di pianoforte, in fondo antesignano di certi nostri degustatori musicali che impazzano sul metaverso stilando classifiche e decretando ascese e cadute (anch’esse virtuali) di musicisti più o meno noti

Martedì 27 Dicembre 2022, 11:42

Nelle scorse settimane mi è stato regalato il leggendario – o famigerato – Crepuscolo del pianoforte di Beniamino Dal Fabbro, scritto alla fine degli anni Quaranta, e pubblicato nel 1951. Introvabile per lungo tempo, è stato appena ristampato da un piccolo editore bolognese, Pendragon. Vale la pena di parlarvene.

Dal Fabbro era un flâneur, un aristocratico intellettuale che si occupava di musica e di pianoforte, in fondo antesignano di certi nostri degustatori musicali che impazzano sul metaverso stilando classifiche e decretando ascese e cadute (anch’esse virtuali) di musicisti più o meno noti.

E anche Dal Fabbro talvolta si fa prendere la mano dalla sua stessa cultura, dal gusto della battuta mordace, dal compiacimento di esibire, con finta nonchalance, la propria erudizione.

Per cui accade di leggere giudizi strampalati su Grieg, ridotto a miniaturista da salotto, ma soprattutto su Brahms («una sola pagina di Beethoven vale tutti i divincolamenti “titanici” di Brahms»). E, nelle pagine finali del libro, compare un attacco crudele nei confronti di un Arturo Benedetti Michelangeli che, all’epoca in cui il libro fu scritto, aveva appena 27 anni. In fondo un onore per un pianista che, evidentemente, era già leggendario in un’età in cui la maggior parte dei suoi colleghi la carriera l’ha appena cominciata. Una stroncatura che, però, non fa onore a chi l’ha scritta, ça va sans dire.

Ma, allora, perché questo libro è importante, e – direi – imperdibile per chi voglia occuparsi di pianoforte, da professionista o da appassionato?

Perché ci restituisce il quadro di un epoca, di un’estetica, di uno stile che sono, sì, irrimediabilmente perduti, ma che possiedono ancora oggi un enorme fascino.

Talvolta il fraintendimento, l’incomprensione, specie quando sono clamorosi, svelano altre cose, illuminano scenari, e si rivelano più preziosi di una lettura corretta ma banale.

Dal Fabbro è ossessionato da un’idea aristocratica del mondo, un’idea che stava andando in rovina, e che nella musica l’autore vede impersonata da Ferruccio Busoni, del quale questo libro è una sorta di apologo.

E dunque il «crepuscolo» del pianoforte altro non è che il declino di una società e di un insieme di valori di cui Dal Fabbro percepisce con angoscia la disintegrazione. Ma lo fa, quando tiene a bada se stesso, con cultura, qualità letteraria e ironia formidabili, come nel rievocare le «signorine di buona famiglia» che il pianoforte lo avevano studiato da dilettanti. Ma già negli anni Cinquanta «le intrepide ragazze dei nostri giorni, deposto un amore alla musica ch’era sovente fittizio anche in coloro che glielo avevano imposto, si rivolgono ad altri ideali (...) di destrezza fisica o di svago immediato».

La vis polemica dell’autore non conosce requie, ma si esercita in particolare sui virtuosi - che sanno le ragioni della fisiologia dell’esecuzione ma ignorano quelle della musica, e continuano imperterriti a proporre sempre lo stesso repertorio. D’altro canto, per Dal Fabbro, dopo Debussy c’è il nulla (con una sorprendente apertura verso la dodecafonia, cui l’autore assegna speranze e prospettive che poi la storia ha in parte ridimensionato). Per rispondere adeguatamente a un libro come questo se ne dovrebbe scrivere un altro, per cui mi fermo qui.

Ma, almeno, sulla musica a lui contemporanea, cito una fulminante battuta (di qualche anno posteriore rispetto al libro) che Dal Fabbro riservò a un giovane Sylvano Bussotti: «Bussotti, Bussotti, ma non aprirotti!». Solo per intenditori.

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