MATERA - Una scelta di vita, l’esigenza di esprimere la creatività in un linguaggio artistico e in un ambiente musicale più consono alle potenzialità e alle aspettative. A 20 anni, si trasferisce da Pomarico, dove è nato nel 1988, a Los Angeles. Oggi Claudio Tristano è un chitarrista blues tra i più affermati non solo della scena californiana. Una carriera straordinaria, la sua. E il 2020 si era già aperto nel migliore dei modi.
«È da inizio anno che collaboro con la sassofonista e artista del mondo “smooth jazz” Mindi Abair – racconta Tristano –. Lei è stata sassofonista degli Aerosmith, Duran Duran, Backstreet Boys e vanta due nomination ai Grammy Awards. Con lei e la sua band abbiamo iniziato una tournée che ci ha già portati a esibirci a Seattle, Minneapolis e Napa (California, ndr). Il tour prevedeva, come tappa d’eccezione, lo storico Hollywood Bowl, ad agosto: avremmo aperto il concerto di George Benson. La data è stata annullata, come tante altre, a causa del Coronavirus».
Come vive la situazione di pandemia sulle sponde del Pacifico, lontano dalla sua Terra?
«Avendo la maggior parte dei miei affetti sparsi per l’Italia, quando lì il Covid 19 ha iniziato a diffondersi, mi sono molto preoccupato per tutti loro, anche perché ogni giorno apprendevo del numero crescente dei contagi nella Penisola. La tecnologia, da quando vivo negli Usa, mi ha anche in questo caso permesso di essere in costante contatto e rassicurarmi sulle condizioni di familiari e amici». E aggiunge: «Nella gestione dell’emergenza sanitaria, penso che gli Usa come tanti altri Paesi non solo europei, si siano mossi in ritardo. Quando a marzo i riflettori erano tutti sull’Italia, il problema qui non era percepito come grave. Me ne sono accorto perché anche le misure di sicurezza basilari non venivano prese in considerazione, nonostante i primi focolai di Seattle e Washington. Ricevendo informazioni dall’Italia, da subito mi sono munito di guanti e mascherine, usandole per le varie attività quotidiane. Da un paio di mesi, capita la gravità della situazione, i vari Stati hanno adottato misure più restrittive, molto simili a quelle italiane. Ma non c’è l’autocertificazione per muoversi, e si invita semplicemente a stare a casa (“stay at home”) e di uscire il minimo indispensabile». Però in un luogo particolare, com’è “La Città degli Angeli”, «è strano ritrovarsi chiusi in casa in contesto urbano che è giungla, dove per ottenere qualsiasi cosa devi essere costantemente in movimento».
Come ha vissuto i suoi giorni di lockdown?
«Fortunatamente, il mio lavoro non si è interrotto del tutto. Porto avanti i miei progetti di registrazione di musica originale per produzioni televisive americane quali “Gordon Ramsey’s 24 hours to hell and back”, “ Undercover boss”, “Wicked Tuna” e tanti altri. Il lavoro in studio, che conduco parallelamente all’attività concertistica, mi tiene molto occupato e mi ha permesso di far fronte ad un periodo in cui tutta l’industria musicale sta soffrendo. Ho continuato a lavorare a colonne sonore per la tv: l’ultima è stata per il documentario creato da Kim Kardashian, “The justice project”».
Ma Claudio Tristano “scalpita”, non può stare rinchiuso a lungo in uno studio.
«Il palco mi manca tanto e spero presto di tornare ad esibirmi dal vivo. Sono passati 12 anni da quando sono negli Usa, ed è la prima volta che vivo una situazione così particolare. Sono venuto per studiare ed esplorare il mondo della musica rock e blues. L’ho fatto inizialmente frequentando il Musicians Institute, che mi ha formato come musicista e dato avvio alla mia carriera». Le cui tappe fondamentali, ricordiamo, sono la vincita della borsa di studio “Stanley Clark” al Musician Institute, la partecipazione e vincita del concorso che «mi ha visto salire sul palco con artisti quali Joe Bonamassa e Vince Gill (vincitore di 20 Grammy Awards); i concerti premio del concorso tenuti a Nashville insieme allo stesso Gill».
Andiamo all’attualità: a Los Angeles e in California, come nel resto degli Usa, continuano le manifestazioni di protesta, dopo l’uccisione a Minneapolis di George Floyd, per dire basta a razzismo e discriminazioni.
«Nei miei anni a Los Angeles, ho percepito come la comunità nera sia trattata diversamente. Non me ne sono accorto per grandi dimostrazioni, ma semplicemente dialogando con gente del posto. La California è uno degli Stati più aperti, però pure qui il problema esiste anche se non è così radicato. Credo che la questione razziale in Usa sia come un vulcano il cui magma è sempre in movimento, sotterraneo, pronto a esplodere violentemente con una causa scatenante. L’omicidio di George Floyd ha dato il via alle proteste attuali, ma le motivazioni hanno radici molto più profonde. Io non ho preso parte attivamente ai cortei, me ne hanno parlato amici che vivono nei quartieri dove si stanno tenendo le manifestazioni. Io in quanto principalmente chitarrista blues, ho costruito la mia carriera su un genere musicale che nasce proprio dalla cultura e storia afroamericana. Da artista, riconoscere questa paternità significa sapere che la mia cultura è stata forgiata anche in gran parte dai “neri”, molto più di quello che comunemente si pensa. Tra i miei riferimenti musicali più importanti ci sono nomi del blues che coprono un arco di tempo di quasi 200 anni: da Robert Johnson, Kirk Fletcher a Eric Gales. Ma, più in generale, se si esclude la musica classica, e neanche del tutto, la maggior parte dei generi musicali hanno radici “black”. Il mio più totale dissenso verso queste inaccettabili manifestazioni di odio, quindi, lo esprimo piuttosto con chi fa finta di dimenticarsi dei propri antenati culturali. Questa ondata di manifestazioni deve essere una presa di coscienza forte verso un problema che per essere risolto ha bisogno di partecipazione collettiva».