Dopo aver viaggiato per un intero anno con le sue Meridiane, Silvio Perrella inaugura una nuova rubrica, La panchina, che appare da oggi per i lettori della «Gazzetta del Mezzogiorno». Immagini della quotidianità, malinconie civili, osservazioni e ragionamenti si mescoleranno e alla voce dell’autore si affiancherà di tanto in tanto anche quella del signor Acciuga, un personaggio alter-ego che si riallaccia alla tradizione che va dal signor Dido di Savinio al signor Palomar di Calvino.
Il signor Acciuga ama le panchine. Non ne ha una tutta sua; di volta in volta ne cerca una, ci si siede e guarda. Il signor Acciuga ha molti amici immaginari; si chiamino Palomar Teste Dido Cogito o Perelà, lui li convoca e con loro argomenta disquisisce puntualizza s’immalinconisce.
Il signor Acciuga dice di essere stato disegnato da Alberto Savinio, ma nessuno ha mai appurato se dica la verità o menta.
A volte anche Bouvard e Pecuchet vengono a fargli visita; lui sa quanto siano pignoli nello stabilire l’inessenziale, nel passare in rassegna ciò che non conta più o non ha mai contato.
Ma cosa conta oggigiorno, si chiede.
Oggigiorno mancano le fonti, qualcosa da cui partire, un perno attorno al quale far ruotare i ragionamenti; mancano i basamenti.
Ecco perché il signor Acciuga preferisce appoggiare il suo fondoschiena su panchine di fortuna; fare le sue indagini da pesce salato; tirare conclusioni che mai concludono; andare altrove a riposare le membra stanche, senza che nessuno sappia mai dove vada di preciso a far passare le notti.
Oggi pomeriggio davanti alla sua panchina c’è lo spettacolo dei colombi, i lumpenpennuti grigi e bianchi che devono scappare dalla furia famelica dei gabbiani e che ancora a volte svolazzano nelle piazze San Marco del mondo.
Sono tanti, tantissimi, indistinguibili gli uni dagli altri; sono presi da alcuni enormi pancarré chissà come arrivati sin da loro.
I loro becchi trivellano il cibo; ne fanno saltare pezzi in aria; l’agitazione della fame muove ogni parte del loro corpo.
Il signor Acciuga li guarda con ostinazione; si ferma ad osservare dettagli nel coro dei gesti; cerca di capire se i movimenti meccanici dei colli siano coordinati o invece vadano paragonati a elettroshock inconsulti.
I pancarré attirano sempre nuovi colombi; ne arriva uno al quale manca una zampa; zoppica nella sua fame; un altro becca sul collo il vicino; finché un passante ignaro, uscendo dalla vicina metropolitana, provoca un terremoto di ali.
Il signor Acciuga alza gli occhi e si accorge che una fila di piccioni staziona sul filo dell’elettricità che si tende tra i pali.
Stanno lì ad osservare; forse hanno lo stomaco già pieno; forse sono un’aristocrazia venuta direttamente dalla fantasia di Aristofane.
Nel frattempo il lavorìo dei becchi continua e si alterna a svolazzi improvvisi, provocati da altri passanti che la metropolitana deposita in superficie.
Il signor Acciuga sa che tutti vanno di fretta; nessuno ha il tempo d’osservare quel che gli accade dinanzi, dileguandosi nel nulla con un’andatura a balzelli.
I colombi lasciano andare i passanti, facendosi di lato nell’aria affollata di piume; poi tornano a becchettare quel che rimane dei pancarré.
Il signor Acciuga nella sua magrezza fa pensieri malinconici.
I piccioni impegnati nelle loro attività mangiatorie gli sembrano un’immagine dell’oggigiorno; un affannarsi a becchettare briciole che sembrano isole alla deriva; uno spintonare il vicino in tutto simile a te ma sentito e trattato da estraneo; una dilagante solitudine nel bel mezzo della folla pennuta.
Il signor Acciuga alza di nuovo gli occhi verso i piccioni dondolanti sul filo elettrico.
Loro sembrano non partecipare al balletto meccanico dei colli; guardano da lontano; stanno gli uni accanto agli altri senza insfastidirsi.
Non si sa cosa pensino e se pensino qualcosa di preciso.
Anche il signor Acciuga, dopo aver scontato in sé la malinconia civile del suo stare lì a curarsi di dettagli che a nessuno importano, si alza dalla sua panchina; fa in modo di non dare fastidio; si avvia verso il buio che ha preso possesso dell’aria.
Lui fende lo spazio come se il suo naso a punta fosse la prua di un’imbarcazione in cerca d’un approdo.
Gli altri signori, suoi amici immaginari, lo seguono di lontano; ognuno si è alzato da una panchina con i pensieri a far ressa nei loro crani alfabetici. Chi si trovasse lì per caso e avesse occhi per osservare e tempo da dedicare si accorgerebbe del breve corteo che costeggia il marciapiede.
Pensieri passi cappelli e soprabiti fanno danza nell’aria della sera.