In Puglia e Basilicata
Meridiane
Silvio Perrella
09 Giugno 2022
Graziana Capurso
Basta metter piede fuori dalla stazione di Casablanca e oplà sei a Berlino. Alexanderplatz? No, piuttosto place de Nations Uniens.
Un uomo in caftano turchese attraversa a passo lento la piazza; versa la voce nel cellulare attaccato all’orecchio; sparisce tra la folla.
Come a Berlino, lunghi tram fanno i serpenti seguendo binari che all’improvviso curvano verso strade ignote.
L’arrivo in città sconosciute mette allegria, soprattutto se non ti aspetti nulla.
I miei interlocutori in Marocco si stupiscono che voglia proprio andare a Casablanca.
Troverai gran confusione e degrado, non certo la luminosità quieta di Rabat né l’intrico ventrale di Fes, per non parlare del mercato a polifonia sparsa di Marrakech.
Il Marocco è un orologio a più tempi. Nelle medine staziona un passato che fa di malinconia virtù. I corpi si confondono alle merci. Trovi le persone nei luoghi più inaspettati, come se prendessero esempio dai moltissimi gatti. Appaiono in solitudini improvvise. Hanno occhi dove le lacrime fanno velo a un buio curvo. Qui Rodin avrebbe dovuto rimodellare il suo pensatore.
Magari immaginandolo genuflettersi su un tappettino a far rito di preghiera mentre il muezzin invita con il suo canto.
In città come Tangeri e Casablanca invece fa ressa il presente e non sai quanto futuro ci sia in serbo.
Casablanca-Berlino ha una moschea che sembra un gran palazzo veneziano. Sorge direttamente dal mare, s’indora al tramonto, fa svettare il suo minareto come un grattacielo oceanico.
Sei tra le strade. Orientarsi è inutile adesso. Gli occhi continuano ad alzarsi. Lassù ci sono le vestigia architettoniche di un tempo coloniale.
Ti sembra di tornare agli anni Venti del Novecento.
Ma il tempo di questo pomeriggio batte altri rintocchi.
Tuttti i grandi edifici coloniali di Casablanca sono in rovina. Le facciate, i decori, gli archi, i portici dicono di un’Europa ammutolita.
Il cinema Rialto biancheggia al centro di una strada. Sembra un fantasma che trasporta gli occhi ad Harlem e all’Apollo theatre.
Le porte d’ingresso sono socchiuse, ma non si può entrare; sono concessi solo sguardi furtivi a carpire scale androni manifesti alle pareti tempo arrotolato nelle pellicole.
Il Rick’s café oggi è solo una scritta sbiadita e ieri immaginazione incarnata da Hunphrey e Ingrid.
Tra ieri e oggi c’è un altro bar. Si apre sulla strada principale, ben dritta con al centro i tram e ai lati i camminatori del giorno.
Sotto ai portici, vicino a un venditore di musiche inusuali dove fa mostra di sé l’immagine di Dalidà, si apre il Petit Poucet.
Un gran bancone a curve tutto rosso, pochi tavoli attorno, i vetri leggermente oscurati; tra il dentro e il fuori una tenda ipnotica.
A giudicare dalle scritte che sormontano il bancone, prima si poteva anche mangiare un sandwich, mentre nel presente si servono soprattutto birre e piccole ciotoline colme di olive bianchissime.
Lungo l’ondosità del bancone seggiole alte consentono di fermarsi senza dover per forza occupare uno dei tavolini.
Un cassa d’oltretempo ogni volta che deve emettere il responso del conto fa musica chiocciante ed emette scontrini minuscoli che il barista nasconde in prossimità dell’avventore.
Mi siedo, ordino una birra, pilucco le olive e guardo.
Al tavolino ad angolo tra l’ingresso e il bancone un uomo anch’egli in caftano – questa volta è bianco – medita dinanzi a un boccale mezzo pieno. Ha le sue olive.
Si accende una sigaretta, guarda l’oscillare della tenda, per lui il tempo sembra equivalere al venticello prodotto dal passare dei tram.
La tenda è fatta di lunghi fili con pietruzze simile a noci; fa pensare a un alfabeto che gli incas chiamavano quipu.
Quando un nuovo avventore la fende prende nuovi ritmi, come ballasse.
Niente musica, solo questa tenda che lascia trasparire i movimenti dellla città, mentre aspettiamo responsi.
L’uomo in bianco sorride; aggiusta i piedi nei sandali.
Appollaiato sulla sedia sento frusciare il tempo come se il Petit Poucet fosse sfiorato dalle nuvole.
Casablanca fa ago tra le stagioni del mondo, mentre sorseggiamo birre e l’oceano inghiotte il sole.
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