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Quando la parola è la risposta ai quesiti in un mondo che cambia

 
Mirella Carella

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Mirella Carella

Quando la parola è la risposta ai quesiti in un mondo che cambia

C’è un gap generazionale con la quale siamo chiamati a confrontarci ed è consolatorio ritrovare lo stesso smarrimento in tutti gli insegnanti rispetto a questo tempo labile

Venerdì 05 Maggio 2023, 16:17

Ei fu. Siccome immobile, / dato il mortal sospiro, / stette la spoglia immemore/ orba di tanto spiro/ così percossa, attonita/ la terra al nunzio sta, / muta pensando all’ultima / ora dell’uom fatale; / nè sa quando una simile / orma di piè mortale / la sua cruenta polvere / a calpestar verrà [....]

Non potevo che iniziare così ricordando il 5 maggio di Alessandro Manzoni, ode composta alla notizia della morte di Napoleone Bonaparte.

Ed è forse uno tra i ricordi rimasti più impressi di scuola, di ciò che per me è stata la scuola quando ero poco più che bambina. Oggi sarebbe non solo anacronistico, ma inutile assegnare cotanto sforzo ai nostri studenti che di tempo ne hanno poco, troppo poco per i frenetici pomeriggi alla quale li abbiamo addestrati.

Tutto è cambiato, la scuola ne è la prova della distanza e del tempo trascorso, c’è un gap generazionale con la quale siamo chiamati a confrontarci ogni giorno ed è divenuto consolatorio ritrovare la stessa sensazione di sottile smarrimento, ogni anno, nei colleghi, negli insegnanti tutti, rispetto a questo tempo labile.

Non è nostalgia dei tempi che furono, non credo di averne ancora l’età, quanto piuttosto la consapevolezza di un tempo veloce che ci pare di dover rincorrere, sempre.

I miei nonni ripetevano: “ai miei tempi” come una sorta di intercalare, buono per ogni occasione, per ricordare di provenire da altri mondi e per giustificare i loro racconti lontani. Ecco,oggi ne andrebbe pur bene l’utilizzo, anche se a distanza di pochi anni, perché questo tempo, diverso da ogni altro, tende a mutare le cose sino quasi a renderle irriconoscibili.

Cambia tutto troppo in fretta? Non so. Cambia come deve.

A scuola tutto è cambiato: i banchi oggi sono anche a rotelle, gli schermi digitali e performanti hanno preso il posto della vecchia lavagna in ardesia, computer in ogni aula, libri e classi digitali, e nelle scuole più fortunate classi immersive con la realtà aumentata.

Ma ancora le parole contano.

A volte, presi come siamo dalla smania di essere al passo tra nuove tecnologie e accattivanti metodologie di didattica, tra flipped classroom (classe capovolta), circle time (dibattito di un argomento ponendosi in circolo insegnante incluso) e cooperative learning (apprendimento reciproco in piccoli gruppi) ci dimentichiamo che basterebbe la parola. Eppure, diciamo la verità, finita la scuola, restano nella memoria solo i docenti di cui ti sei innamorata del modo in cui sapevano raccontare l’arte, del modo in cui leggevano i versi del Foscolo, di loro resta persino traccia del tono della voce. Ciò che rimane e ciò che ti ha pervaso, emozionato, incantato, che ha reso le parole tangibili o capaci di illuderti. Oggi ci sembra di doverle provare tutte per non sentirci sorpassati e desueti, dimenticando che se tornassimo a concentrarci sulla parola, saremmo già a metà del percorso.

Di questo i ragazzi me ne hanno dato conferma.

Qualche settimana fa con alcune colleghe abbiamo organizzato un matinée al teatro con gli studenti. Siamo arrivati a teatro un po’ in anticipo, loro come sempre eccitati per la giornata da trascorrere lontana dai banchi di scuola, dal tragitto in pullman, dal compito scritto posticipato, per volontà della Divina Provvidenza.

Grati per questo tempo perso - Pensavano!-.

Prendiamo posto, le luci si abbassano, sale sul palco l’attore e con voce ferma chiede loro di riporre il cellulare nello zaino per non disturbare la performance. Ad aspettarli, 90 minuti di monologo, un solo attore sul palco, musica di sottofondo, quando serve, e nient’altro: nessun orpello, né danzatori acrobati, né occhiali 3D.

Null’altro se non un uomo solo, con un faro puntato addosso a raccontare una storia. Io e la mia collega, sedute l’una accanto all’altra, ci siamo guardate sorridendo, desiderose di commentare ad alta voce e con un certo tono di scherno: - Povero illuso! Impossibile, 90 minuti senza telefono! -. Poi lo spettacolo ha inizio. Cinquantadue studenti, fermi, con lo sguardo puntato sul palco, senza telefono nascosto in tasca, nelle pieghe della felpa, senza scartare caramelle, mangiucchiare patatine, rapiti ad ascoltare la parola.

Allora ecco che la parola sa ancora essere l’antidoto, la trovata alla moda, la risposta ai quesiti. La parola che lenisce, che sorprende, che affabula, la parola che ti investe con la sua forza, che ti nutre, la parola che basta.

Quando lo spettacolo è terminato con un fragoroso applauso, ci siamo guardati in faccia ed eravamo pregni, di ciò che avevamo ascoltato, nessun commento è stato necessario, le loro facce parlavano. Lo avremmo fatto, il giorno dopo in classe, con calma.

La parola è il modo, è ancora il tramite. Dal prossimo anno servirebbe un corso di formazione obbligatorio per tutti i docenti, di teatro, per imparare a riprendersi lo spazio, il palco, per riconquistarli, per riprenderli, lì dove abbiamo smesso di farlo.

Non servirà altro.

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Mirella Carella

Diario di Classe

Biografia:

Nasce la collaborazione con la «Gazzetta» di Mirella Carella, che curerà la rubrica «Diario di classe», piccole e grandi storie quotidiane che nascono tra i banchi e nei cuori dei giovani. Mirella Carella, barese, ha lavorato nel mondo dell’arte partecipando a mostre in Italia e all’estero, alcune sue opere fanno parte di collezioni pubbliche e private. Dal 2015 è docente di ruolo in Disegno e Storia dell’Arte.

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