Esiste un prima e un dopo per ogni cosa, e così anche il Natale a Roma non è più lo stesso dall’inverno del 2017. Come da prassi, a dicembre ogni città deve dotarsi di arredamento natalizio consono. Dunque via al gran ballo di luci, lucette, babbi natale e spesso pure canzoni diffuse in loop, in una modalità che per la verità fa pensare più alla cura Ludovico raccontata in Arancia Meccanica che al caro vecchio spirito natalizio di dickensiana memoria. Ad ogni modo, il cuore del natale urbano resta il grande abete – in diverse formule, non necessariamente vegetali – da collocare nel centro delle città. New York, Londra, Parigi, ma anche Gravina e Palagianello (che pare abbia un albero-non-vegetale bellissimo). A Roma la tradizione ormai vuole l’albero (vegetale) svettante su piazza Venezia. In una capitale raccontata per anni come il simbolo del degrado, della mala amministrazione, della monnezza e via discorrendo, almeno l’albero di Natale sembrava salvo, con i turisti pronti a scattare selfie e foto ricordo con l’altare della patria sullo sfondo. Sembrava, appunto.
Ricordo ancora, in quel dicembre ‘17, il clima sospeso tra lo stupore (ma non è possibile, è uno scherzo!) e il complottismo politico (è l’ennesimo tentativo di boicottare la sindaca!, in effetti non all’apice della popolarità), scioltosi finalmente in una risata cristallizzata nel nomignolo affibbiato al triste abete montato in piazza, povero di rami, diversi dei quali pure flosci, dimessi, esangui di foglie, in definitiva abbacchiato, rassegnato, sfigato: Spelacchio. Difficile risalire al copyright del nome; peccato, perché la formula trovò immediato successo ed è tuttora in voga, tanto da generare un account twitter dedicato, vari gemelli in tutta Italia, trame, sottotrame, spin off e stagioni successive (non a caso, dopo Spelacchio, gli abeti di piazza Venezia sono stati sponsorizzati dalla piattaforma Netflix).
L’originale venne dichiarato ufficialmente morto il 19 dicembre. Scrisse poeticamente l’agenzia Agi: «Spelacchio non ce l’ha fatta ad arrivare al Natale: l’albero di Piazza Venezia è stato dichiarato morto lunedì sera dal comune di Roma. È secco. La sua condizione fisica, già precaria, è stata poi messa a dura prova dalle piogge dei giorni scorsi e dalle folate di vento». Seguirono ancora giorni di polemiche, articolesse che facevano del povero albero l’ennesima metafora decadente della città, e poi richieste di chiarimenti, rimpalli di responsabilità tra il vivaio del Trentino che aveva fornito l’abete («quando è partito stava benissimo»), la ditta di trasporto e l’amministrazione. La sindaca Raggi, fiutata l’aria, tentò di ribaltare il senso di tristezza generale suscitato dall’albero attraverso un’arguta operazione semantica, spostando l’asse di senso dalla pena all’umana simpatia per i poveracci. Operazione, va detto, in parte riuscita, tanto che qualche tempo dopo un autore sotto pseudonimo dette alle stampe persino un libretto commemorativo, intitolato Pare che dorme…
L’Iperbolica parabola di Spelacchio, con una sezione dedicata «alle foto di altri Spelacchi in giro per il mondo, per non farlo sentire troppo solo».
A piazza Venezia, l’anno dopo seguì Spezzacchio, perché in fase di montaggio la parte bassa pareva in effetti essere frammentata. Il salto nel 2022 ci porta a Fotovoltacchio, così battezzato per via dei vistosi pannelli solari che garantiscono l’illuminazione sostenibile. Lo spirito di Spelacchio, tuttavia, pare essersi reincarnato per quest’anno a Foggia. Ha scritto la «Gazzetta»: «Lo hanno definito lo “spelacchio” di Capitanata mutuando il nomignolo dato al fratello gemello romano...” l’albero di Natale” più brutto del mondo». A testimonianza che Spelacchio no, non è morto, ma è vivo e lotta insieme a noi.

















