«Siamo tutte nella stessa situazione», pensano in molte quando si parla di crisi dei modelli culturali di organizzazione della famiglia: tra la divisione dei carichi di cura, il lavoro e i bisogni di indipendenza economica e autorealizzazione professionale insoddisfatti.
Il modello che costringeva le donne a scegliere tra famiglia e carriera è ormai superato, ma non è ancora stato costruito un nuovo equilibrio. Chi cerca di realizzarlo, spesso si ritrova con un doppio carico di lavoro: quello retribuito fuori casa e quello non retribuito, né riconosciuto, dentro casa.
«Ma io lavoro», è la risposta che tante donne si sentono dire dai propri partner, come se chi resta più tempo a casa non stesse lavorando per tutti. Ben sapendo, peraltro, che fare il “manager di casa” non significa solo sbrigare commissioni, fare la spesa, cucinare, sistemare, coordinare le attività per tutti. Significa anche offrire una presenza psicologica e affettiva, che va oltre l’accudimento: è una cura amorevole, fatta di ascolto, sguardi, accoglienza di malumori, silenzi, gioie e vittorie dei figli. La presenza accogliente di un genitore ha un valore inestimabile, poiché si dona senza misura, con l’unico scopo di rendere felici gli altri.
Molte donne, poi, sentono il desiderio e la responsabilità, da adulte, di contribuire anche alla vita sociale e professionale con il proprio talento e impegno, realizzandosi nel lavoro. Ma devono fare i conti con l’altro genitore – spesso un uomo – che nel frattempo si è dedicato unicamente al lavoro e non ha sviluppato le stesse competenze di cura dei figli e di gestione della casa. Questo genera frustrazione e recriminazioni sull’assenza della partner, alimentando in lei un senso di colpa come madre e moglie. Tocca allora a lei affrontare la situazione, per il bene di tutti, perché la propria felicità si rifletterà anche su di loro, e perché aiuterà il padre a costruire un rapporto diretto con i figli e ad assumere pienamente i ruoli scelti anche nella sfera privata.
E poi ci sono quelle donne che restano inattive (18 punti percentuali in meno rispetto agli uomini, dati ISTAT 2024), che pur desiderando lavorare non riescono a superare le barriere culturali e materiali di una società escludente, poco incline al cambiamento. Questa marginalità ha un costo che paghiamo tutti: alimenta il circuito della povertà – non solo quella del PIL, che le donne potrebbero contribuire ad aumentare – ma soprattutto quella delle spirali di violenza. Dove c’è squilibrio di potere economico e sociale, c’è più possibilità di dominio e sopraffazione, fino alle violenze fisiche che leggiamo ogni giorno.
È la logica del bullo: sottomettere o eliminare, tradire, sminuire, manipolare, costruire narrazioni funzionali al proprio piano d’azione, per mantenere controllo e potere sull’altro, finché non si pieghi alla sua “protezione”, perdendo la propria libertà. Perché la libertà dell’altro è la dimostrazione della sua inferiorità (percepita), vissuta come una minaccia alla propria onnipotenza fragile.
Da dove iniziare a invertire questa tendenza, se non siamo capaci di rinunciare alla logica del potere a ogni costo? Al mito della grandiosità, dell’apparenza, del possesso? Come possiamo rendere davvero democratica la nostra società, nello spirito prima ancora che nelle leggi, se non riconosciamo che ogni persona “vale uno” e che solo insieme possiamo realizzare i diritti, condividendo doveri e, soprattutto, le responsabilità?