La situazione occupazionale odierna in Puglia con un approfondimento sulla segmentazione socio demografica della popolazione evidenzia un dato in particolare: il 30 per cento delle donne occupate in Puglia ha dei contratti di lavoro part time. E spesso si tratta di lavoro a bassa qualifica. Tutto questo spiega anche i divari salariali. Ancora più preoccupante è quel dato del tasso di inattività che per le donne raggiunge il 56,9% in Puglia. Tasso di inattività preoccupante a Bari, dove le donne soprattutto hanno questo primato: non lavorano e dichiarano di non cercare lavoro. Non si sa chi sono e dove sono, perché non essendo parte della forza lavoro, non sono censite, nei centri per l’impiego o nelle agenzie per il lavoro, non hanno mai lavorato e non sono disoccupate, perdendo il lavoro e avendolo sospeso negli anni. Non esistono. È il fenomeno dello scoraggiamento ovvero la convinzione di non trovare lavoro anche se lo si dovesse cercare. Ma si tratta anche della quadrupla presenza, il fenomeno che le vede presenti nel mercato del lavoro dopo il ruolo di mogli/compagne, madri, caregiver di genitori anziani o parenti non più autosufficienti e infine lavoratrici.
Solo nella città di Bari nel 2023 secondo i dati Istat, riportati nella ricerca di Uniba durante l’evento Bari Lavora, presso la Fiera del Levante il 4 ottobre scorso, il divario occupazionale mostra ancora una netta differenza tra occupazione femminile, pari al 57,4% e quella maschile, relativa all’88,9%, nella fascia 35-44 anni, nel 2023. Dati che scendono dopo i 45 anni riportando un’occupazione maschile dell’84,5% e femminile del 50,3%; per poi scendere ancora dopo i 55 anni di età al 66,9% per la parte maschile, contro il 35,6% per la popolazione femminile. Il tasso di uomini inattivi è di 10,9% tra i 45 e i 54 anni di età e quello delle donne inattive della stessa fascia di età è pari al 45,8%.
I costi della mancanza di posti di lavoro, non sono solo costi individuali, ma costi di comunità e costi sociali, perché la mancanza di lavoro, di autonomia e di reddito influisce sia sulla disponibilità di acquisto delle famiglie (come abbiamo visto nella contrazione dei consumi durante le crisi del 2008, del 2013 e poi del 2020 con la Pandemia), sia negli squilibri sociali che alimentano violenza (soprattutto a danno delle donne) insieme all’esposizione a fenomeni di degrado e ingiustizia sociale.
Anche le persone con disabilità hanno bassissimi livelli occupazionali, perché non si creano le condizioni oggettive per l’accesso e la permanenza nei luoghi di lavoro. Non è sufficiente parlare di politiche di inclusione se le condizioni di accesso al lavoro non sono inclusive, come ad esempio la possibilità di fare chiaro riferimento alle tutele per le persone diversamente abili negli annunci di lavoro, la possibilità di avere un traduttore vocale nella lettura degli annunci e nell’invio delle candidature e dei curricula.
L’esclusione dal mondo del lavoro comporta perdita di autoefficacia e di senso della vita per le persone, con conseguente assenza di senso di appartenenza alla comunità, con relativa esclusione dai meccanismi di partecipazione alla vita sociale e politica.
Allineare la prospettiva inclusiva e lavorare per ridurre ed eliminare le differenze di opportunità occupazionali significa investire nel rafforzamento della cultura delle persone e nella possibilità che esse abbiano fiducia in sé stesse, nel proprio ruolo sociale e comunitario e nel futuro. Si può fare rafforzando il sistema della formazione, le opportunità di welfare e del sistema integrato dei servizi per il lavoro, oltre che dando supporto alla gestione dell’equilibrio tra privato e pubblico, ambito in cui è ancora forte la disparità e il conflitto di genere.