In occasione della giornata nazionale per le vittime del Covid istituita il 18 marzo condividiamo il contributo del nostro Vito Romaniello in prima linea nella battaglia contro il Coronavirus per ricordare e raccontare.
La partita della vita, contro un avversario bastardo, cattivo e vigliacco. La squadra ha vinto improvvisando, con coraggio e tenacia. Non c’erano ancora tattiche e protocolli, li hanno trovati loro.
Medici, OSS e infermieri sono scesi in campo accanto a te, per te. Voci della rinascita in questo podcast realizzato in occasione della Giornata delle vittime del Covid. Poteva essere la fine, poi la disperazione ha lasciato il posto alla speranza.
LA TESTIMONIANZA DI VITO ROMANIELLO
Tutto attorno tace. Sono le prime ore del mattino e mi trovo a girare senza meta. Quando succede per i troppi pensieri che affollano la mente salgo in auto, metto la playlist giusta e parto. Non è importante la destinazione, ma il viaggio. Non ho particolari preoccupazioni, sono alcuni ricordi ad essere prepotentemente riemersi. E procurano irrequietezza.
Oggi, tre anni fa. Il mondo si ferma, le persone non escono di casa, c’è tanta paura. Sembra un incubo, invece è ansiosa realtà. Almeno così mi hanno raccontato. Perché il 10 marzo del 2020 io sono sparito, improvvisamente. Due uomini vestiti come astronauti mi hanno portato via da casa. C’è un solo posto in terapia intensiva, il mio. Comincia così la “partita della vita”. Di fronte c’è un avversario meschino, bastardo, scorretto. E soprattutto sconosciuto. Il primo tempo lo giocano medici, OSS, infermieri. In coma farmacologico, intubato, a pancia in giù. Mi risveglio dopo 20 giorni, un casco aiuta a respirare. Il polmone sinistro è “gravemente compromesso” ma il peggio sembra essere passato.
È solo l’intervallo. Il Covid non molla, aggira la difesa e colpisce alle spalle. Si preannuncia un secondo tempo complicato. Subentra la polmonite, è necessaria una nuova intubazione. La vita è appesa a un filo. Cinque lunghi giorni per chi fa il tifo per te e aspetta i quotidiani aggiornamenti telefonici dall'ospedale. Sono i momenti decisivi della partita e quando tutto sembra destinato a spegnersi nell’oscurità, improvvisamente riapro gli occhi. La voce non esce e come se non bastasse sono paralizzato. Le braccia non si muovono, le gambe non si alzano, le dita non si spostano neppure di un millimetro, ma sono sveglio.
Vivo, anche se mi sento ospite e prigioniero di un corpo che non risponde. Non sembra essere il mio. Il casco in testa ha un debole e continuo ronzio che a lungo andare diventa assordante. È appannato, ma lascia intravedere il cielo azzurro fuori dalla finestra. Immagino che a osservarlo ci siano anche parenti e amici, proprio come faccio io. Devo rialzarmi, per me stesso e soprattutto per loro. Abbiamo vinto la partita, ora comincia la parte più difficile: riprendermi la vita.
Mentre mi tornano in mente alcune frasi che ho scritto lo scorso anno, penso al 18 marzo. Il compleanno di mia figlia, la Giornata nazionale in memoria delle vittime dell’epidemia di coronavirus. Incredibile coincidenza o significato tutto da scoprire? Provo a trovare risposte mentre continuo a macinare chilometri su una strada buia e deserta. Penso alla fortuna che ho avuto ad essere qui, penso a chi non ce l’ha fatta.
10 marzo 2020, tutto poteva finire, tutto è ricominciato. Ho recuperato bene, anche la parola, la voce. Importante per chi fa il mio mestiere. E l’ho voluta mettere insieme alla passione per il calcio nei podcast della Gazzetta. Che rappresentano il simbolico richiamo alle origini, alla mia terra. Così lontana da dove vivo e straordinariamente vicina nel modo di essere. Un medico ha detto che la voglia di combattere non è mai venuta a mancare ricordando il mio luogo di nascita: “Taranto, città fondata dagli Spartani”.
Sento abbaiare il mio cane, un lampioncino illumina il sentiero che attraversa il giardino. Senza rendermene conto sono tornato a casa.