Sarà che siamo tutti più attenti alla salute e alla linea. Sarà anche che il mercato del vino italiano, dopo anni di boom, ha registrato una frenata nell’export e una flessione nei consumi nazionali. Fatto sta che - anche se tempi e modalità non sono ancora chiare - anche il governo ha aperto per la prima volta le porte ai vini low o no alcol.
È nell’aria un tavolo programmatico, che le associazioni richiedono a gran voce già prima della campagna vendemmiale, in cui il ministro all’Agricoltura, Francesco Lollobrigida, dovrà prendere una posizione netta sul tema e dare una linea, che sia condivisa da tutti. Già oggetto di acceso dibattito durante le giornate dell’ultimo Vinitaly, lo scorso aprile, il tema dei dealcolati continua a tenere banco, tra i favorevoli a produrli e i contrari alla loro esistenza. In Italia il processo di produzione aveva subito un rallentamento, se non un vero e proprio arresto, in virtù dei forti dubbi nutriti dal ministro. Numerose cantine italiane, infatti, si sono attrezzate per produrre fuori dai confini nazionali i vini senza alcol. Nonostante la posizione incerta del ministro, svariati segnali di apertura sull’argomento si erano registrati nel Salone internazionale del vino e dei distillati di Verona. In primis, quello dell’amministratore delegato di Veronafiere, Maurizio Danese, che aveva addirittura lanciato l’idea di un padiglione tematico dedicato ai no-alcol. Insomma, che sia arrivata l’ora, anche per l’Italia, di passare necessariamente da alcuni trend e prodotti, è un dato di fatto.
A comprenderlo ora è anche il governo italiano. C’è una domanda, che non si può ignorare, perché è una richiesta dei consumatori. I vini low e no alcol riguardano un giro d’affari internazionale che conta 13 miliardi di dollari, cioè circa 12 miliardi di euro, con una previsione di crescita, entro la fine dell’anno, di un ulteriore 6 per cento. Una fetta di mercato che oggi non contempla ancora l’Italia. Non solo. Ci sono anche il vino in lattina e l’RTD (il «ready to drink»), prodotti che rispondono a un’ulteriore esigenza di sostenibilità, di innovazione e di attenzione alla salute. Il gusto dei consumatori è cambiato, sempre più legato alla necessità di un senso della misura verso l’alcol. E quindi, in quest’ottica, le bevande dealcolate sembrano una buona alternativa di intercettare, nei prossimi anni, coloro che comunque un allontanamento dal vino, per diverse ragioni, l’hanno maturato. Questo, nonostante il processo produttivo per i wine maker sia più costoso rispetto al vino classico. C’è poi chi resta fedele al gusto.
Se il gusto della birra dealcolata si avvicina molto a quello tradizionale, il vino non alcolico, al contrario, è molto lontano dall’assomigliare all’originale, e spesso si è anche costretti a correggerlo con zuccheri e aromi. Se ne accorgeranno i giovani, vicini sì alle bevande a basso contenuto di alcol e alle poche calorie, ma anche attenti ai sapori? Potremmo pensare al grande successo della Coca Zero. O, forse, rispetto al vino, avrà la meglio la birra low e no alcol che, come ricordato da AssoBirra, «viene apprezzata per il suo sapore piacevole e la sua leggerezza proprio dalla Generazione Zeta e dai Millenials»?