Se la vita è troppo dura, sponzala!, la metafora della vita diventata una delle frasi cult della community “inchiostro di Puglia” associata ad un must dell’estate pugliese, la frisa o friseddha, dura “dalla nascita” ma sponzata, appunto, per essere gustata. Le origini della frisa pugliese sono antichissime, risalgono a ben 3000 anni fa. Questo prodotto biscottato era usato come pane da viaggio per i marinai. Il fatto di essere, infatti, già secca consentiva una lunga conservazione e la rendeva ideale per viaggi lunghi. Anche la sua forma nasce dall’esigenza di trasportarla velocemente. Il buco centrale consentiva il passaggio di una corda i cui terminali venivano legati con un nodo per appenderlo più facilmente durante i viaggi. Quando arrivava il momento di mangiarle, si bagnavano con l’acqua salata del mare e si condivano con olio e ingredienti poveri come le cipolle, garantendo un pasto completo e gustoso.
Secondo una leggenda, fu Enea a portarle nel territorio pugliese durante la fuga dalla città di Troia e da quel momento sono diventate ufficialmente parte della tradizione culinaria del posto. La frisa è considerata un sostituto del pane ma, rispetto a quest’ultimo c’è una fondamentale differenza: la frisa è cotta due volte (bis-cotto). Per prepararla bastano acqua, farina di semola di grano duro, sale e lievito. L’impasto viene lavorato a mano e tagliato fino ad ottenere delle losanghe che si arrotolano come un tarallo. Dopo la prima cottura, ogni frisa, ancora calda, viene tagliata con uno spago “a strozzo” e cotte per una seconda volta. Da piatto povero oggi è diventato gourmet, più modaiole, superando il classico condimento con pomodoro, origano, olio e sale: in particolare sulle spiagge del Salento viene “valorizzata” con sott’oli, salumi e latticini, rigorosamente, pugliesi ma anche con tonno, verdure grigliate, friggitelli, polpo alla griglia e salsiccia. E’ possibile trovare, infine, la versione dolce come la frisa Tiramisù o la frisa Mimosa.