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I giudici citano Chavis nella sentenza sull'Ilva: «Su Taranto razzismo ambientale»

 
Francesco Casula

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Francesco Casula

I giudici citano Chavis nella sentenza sull'Ilva: «Su Taranto razzismo ambientale»

«Ambiente svenduto» a Taranto, la lettura della sentenza

La Corte d’assise affonda i colpi sulla gestione di Fabio e Nicola Riva, ex proprietari della fabbrica. Gli imputati hanno tempo sino al 13 gennaio per studiare le 3700 pagine della sentenza e proporre appello

Giovedì 01 Dicembre 2022, 12:56

TARANTO - «Per descrivere quello che è stato fatto al territorio tarantino attraverso le descritte condotte, si potrebbe addirittura ricorrere al concetto di “razzismo ambientale”, coniato dal leader dei diritti civili afroamericano Benjamin Chavis nei primi anni ‘80».

È quanto si legge nelle 3700 pagine che compongono le motivazioni della sentenza «Ambiente svenduto» che a maggio 2021 portò alla condanna di 22 imputati tra i quali Fabio e Nicola Riva, ex proprietari della fabbrica ionica. Per la corte d’assise di Taranto, la gestione «illegale» portata avanti dagli industriali lombardi è paragonabile a quanto denunciato da Chavis: Taranto, come zone dell’Africa, è stata individuata come una delle «zone economicamente arretrate» dove «realizzare grandi impianti industriali o altre fonti inquinanti, senza che le istituzioni preposte ai controlli esercitino efficacemente le proprie prerogative e, in ultima analisi, senza alcuna considerazione della popolazione residente, costretta a vivere in un ambiente gravemente compromesso e esposta a maggiori rischi per la salute». L’assenza di controlli, garantita da una rete di connivenze su diversi livelli, avrebbe consentito ai Riva di accumulare miliardi a danno di operai e cittadini. Secondo i giudici, all’interno dello stabilimento si sarebbe verificata una «sistematica violazione dei diritti dei lavoratori, incuranza verso le norme in materia di sicurezza sul lavoro e di quelle poste a presidio dell’ambiente, con un numero elevatissimo di casi di malattie professionali e infortuni sul lavoro, tra cui molti mortali, e costante opera di tacitazione di ogni voce discorde, compresa quella delle organizzazioni sindacali».

All’esterno, invece, la «violazione delle norme ambientali poste a tutela dei cittadini, attraverso la sistematica alterazione e falsificazione dei dati analitici relativi alle emissioni nell’ambiente di polveri e altre sostanze nocive per la salute umana, il condizionamento, spinto sino alla corruzione, dei soggetti pubblici deputati ai controlli, delle istituzioni e della stampa, la reiterata sottrazione agli impegni assunti negli atti di intesa e nei provvedimenti di autorizzazione (Aia),la mistificazione della natura degli interventi attuali sugli impianti, non ambientale ma prevalentemente produttiva, nella piena consapevolezza degli effetti di tali condotte, commissive e omissive, sull’ambiente e sulla salute dei lavoratori e della popolazione locale». Un disastro ambientale e sanitario intenzionale. I Riva, ma anche i vertici della dirigenza aziendale, erano perfettamente a conoscenza di ciò che si sprigionava durante la produzione, ma invece di intervenire per neutralizzare le fonti nocive, avrebbero agito per proteggere l’acciaieria da azioni esterne che avrebbero potuto compromettere i guadagni. «La capacità di influenzare le istituzioni da parte dell’llva – aggiungono i giudici – facendo leva sul potere economico e contrattuale della grande impresa, ha reso per lungo tempo molto difficile l’accertamento dei crimini» e «per la prima volta con questo processo si è potuta cogliere (…) una visione unitaria della gestione illecita dello stabilimento da parte della proprietà, dei vertici aziendali e dei responsabili delle varie aree e reparti che compongono questa realtà industriale». Un bilancio che, senza troppi giri di parole, per la corte è «agghiacciante» anche per la rete «di collusioni intessuta da Ilva, che coinvolge, avvalendosi di professionisti del tutto asserviti alle sue esigenze, funzionari regionali e statali di alto livello» con i quali veniva «preventivamente concertata la strategia» per «proseguire nella gestione illecita dell’attività industriale».

Le parti processuali avranno tempo sino al 13 gennaio per proporre appello.

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