«Il Governo e il Parlamento devono intervenire subito, altrimenti l’Italia perderà una quota consistente della sua produzione di acciaio». A lanciare l’allarme è Rocco Palombella, segretario nazionale della Uilm, il sindacato dei metalmeccanici della Uil. Palombella è tarantino, la Uilm è la prima organizzazione per iscritti nell’acciaieria ex Ilva, due elementi che rendono la sua voce particolarmente autorevole e informata rispetto a quello che è accaduto nell’ultima settimana.
I reparti dell’area a freddo che dovevano ripartire, con il ritorno al lavoro di 630 operai in cassa integrazione, sono rimasti chiusi; l’azienda ha messo dalla sera alla mattina altri 1000 operai in cassa integrazione; l’amministratore delegato Lucia Morselli per due volte ha dato «buca» al tavolo con commissari e agenzie del Governo, rinviando così la presentazione del piano industriale aggiornato rispetto a quello allegato all’accordo depositato al tribunale di Milano lo scorso 4 marzo per porre fine al contenzioso giudiziario.
Tre segnali che rischiano di provare inequivocabilmente la decisione della multinazionale di abbandonare la gestione del complesso aziendale ex Ilva e che di sicuro già documentano una gestione a dir poco al ribasso. «La situazione a Taranto e negli altri stabilimenti gestiti da ArcelorMittal - dice Palombella alla Gazzetta - sta diventando sempre più complicata e difficile. C’è il rischio concreto che la crisi di mercato dovuta alla pandemia agevoli il sempre tanto temuto progetto di dismissione dell’acciaio italiano, con l’addio ArcelorMittal. Tutto sta avvenendo in maniera precipitosa, senza la possibilità di valutare possibili alternative. Manca il tempo. Se l’alternativa sarà lo Stato, andremo a nazionalizzare una azienda ormai ferma. Come può reggersi una azienda che ferma tutti gli impianti di finitura e che ha l’area a caldo ormai semi-chiusa?» Palombella è preoccupato anche per le immediate ripercussioni economiche e sociali a Taranto dovute all’aumento del numero dei lavoratori in cassa integrazione.
«Intanto ArcelorMittal sta procedendo in una maniera sbagliata, saltando ogni forma corrette relazioni industriali, perché se c’è la necessità di mettere operai in cassa integrazione, ci sono le forme giuste per comunicarlo. Poi, con la cassa integrazione di questo tipo, si portano a casa appena 900 euro al mese, una somma incompatibile con i mutui, i prestiti, gli impegni familiari. Stiamo andando incontro a una situazione dannosa dal punto di vista occupazionale ma anche sotto il profilo ambientale, visto il blocco dei lavori per l’Aia». Da domani le organizzazioni sindacali entreranno in pressing sul Governo per sollecitare un incontro urgente sul dossier ex Ilva.
«Purtroppo finora siamo stati tenuti all’oscuro - dice il segretario nazionale della Uilm - avevamo appreso che entro maggio doveva farsi addirittura l’accordo sindacale ma non siamo stati mai nemmeno convocati. Si fanno incontri segreti dei quali leggiamo sui giornali, torneremo subito a incalzare il Governo, prima che sia troppo tardi per Taranto, per gli operai e per l’acciaio italiano».
La Fiom Cgil di Taranto, intanto, ha inviato un esposto all’Inps e all’ispettorato del lavoro per denunciare l’utilizzo anomalo da parte di ArcelorMittal della cassa integrazione. «La sospensione delle attività con la conseguente collocazione in cassa integrazione per ulteriori 1000 lavoratori - scrivono Giuseppe Romano e Francesco Brigati - non è avvenuta per motivi di ritiro degli ordini già esistenti, ma bensì per una volontà aziendale non ben precisata».