BARI - Vi raccontiamo la storia di Miriana D'Alessandro, ricercatrice pugliese specializzata nelle discipline STEM, tra i migliori scienziati al mondo per l’Università di Stanford. Dopo esperienze in Grecia, Germania e Spagna, è sempre tornata a casa: «Ho rifiutato uno stipendio alto a Monaco di Baviera. Resto in Italia, ma serve dare più dignità alla ricerca».
Oggi sua sorella respira bene. Da adolescente nessuno capiva i suoi polmoni. «Nel 2009 è rimasta un mese in ospedale, sembrava tubercolosi. Le avevano dato due giorni di vita». Quando parla Miriana prende poco fiato, il 2%. È la stessa percentuale dei migliori scienziati al mondo di cui anche lei fa parte, secondo l’Università di Stanford.
«Dopo Cristina non posso più guardare pazienti che soffrono». Però guarda in faccia le loro malattie. Alcune, tolgono. Anche se, per la ricercatrice pugliese, sembrano restituire. «Respirare con un solo polmone è un’occasione in più per vivere». In più ha rappresentato quel mezzo di contrasto al fatto che in Italia il numero di donne nelle discipline STEM sia inferiore alla media europea. Essere una delle poche è stato sin da subito il suo reagente: nel 2016 ottiene un tirocinio all’Università di Patrasso in Grecia; l’anno successivo al Max Planck Institute in Germania. Sono i due Paesi in cui Miriana ha più colleghe che nel resto d’Europa. «Avevo la possibilità di restare a Monaco di Baviera, ho rifiutato uno stipendio molto alto. Ogni volta che mi confronto con i ricercatori italiani ad un congresso, io scelgo di restare in Italia», dove la preparazione e la qualità della ricerca - ripete - sono alte. Nel 2021 vince un premio per il trapianto polmonare a Siena e raggiunge l’Istituto Sant Pau di Barcellona. Il confronto con i colleghi europei ha solo tracciato il triangolo della sua scelta.
«Se la società guardasse alla ricerca come a uno strumento da sfruttare per migliorare la conoscenza umana, non ci sarebbe un braccio di ferro a chi offre di più per "comprare" le capacità dei ricercatori italiani». Che se ne vanno. Se così non fosse, in Italia ci sarebbero più fondi, dunque più stimoli per restare. Con i soldi del premio, in Spagna ha lavorato a un progetto sulla fibrosi polmonare idiopatica -una di quelle malattie «che non hanno farmaci». Le sue parole semplici permettono a chiunque di vedere a occhio nudo il suo lavoro. A 30 anni, ha iniziato a vedere così la sua vita in Italia. «Ho dedicato tutto il mio tempo alla ricerca» - il suo nome su 196 pubblicazioni - «ma alle dottorande dico che ogni tanto è importante alzare gli occhi dal microscopio».
Miriana insegna all’Università di Siena, dov’è ricercatrice presso il Laboratorio di Malattie Respiratorie rare dal 2018. Adesso nella stessa provetta vorrebbe farci stare il lavoro che ama e una famiglia. Il dottorato negli anni della Pandemia è una metafora di come sia cambiata la sua ricerca: «Per la prima volta stavo studiando una malattia con una causa. La maggior parte delle malattie rare non ne ha una». Ha capito che l’ambizione va dosata: «Quello della ricerca è un percorso lungo. Quando si entra nel vortice di soddisfazione che dà questo lavoro, non si sente il bisogno di cercare altro fuori, ma non credo che per una donna debba essere scoraggiante. Anzi, credo aiuti a dare più valore al tempo della vita e al tempo della ricerca».
Oggi in Italia ci sono molte mamme alla guida di progetti e dipartimenti. Sono quelle che restano. Nel suo laboratorio, tra gli strumenti, c’è una bilancia. Miriana non ha mai pesato uomo e donna, ma il pregio di sentirsi fare una domanda. Come se per lei fosse quella, l’unità di misura della parità. «Il Prof. Naftali Kaminski è un luminare della Yale School of Medicine. Lo ammiro molto. La prima volta che l’ho visto ero una studentessa, lo ascoltavo e basta. Il mese scorso è tornato a Siena. Dopo la presentazione del progetto realizzato con i colleghi di Barcellona, mi ha fatto molte domande». Non è il traguardo del suo percorso, è un buon punto. Ed è il respiro di Cristina che, come il vento, continua a spingere Miriana nella sua ricerca.