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L'intervista
Antonello Raimondo
25 Gennaio 2021
Non solo una garanzia. Flavia Pennetta porta con se anche tanta magia. Lei, l’eroina di Puglia capace di trionfare sui campi in cemento di Flushing Meadows, non ha mai voluto recidere il cordone ombelicale con la sua terra d’origine. Ogni volta è sempre la stessa emozione. Per lei che si concede un lungo abbraccio con il suo passato. E per chi ha il privilegio di qualche ora a pochi centimetri da una campionessa a tutto tondo. Perché Flavia non è solo un’atleta che ha riempito d’orgoglio gli occhi di migliaia di appassionati. Ma anche l’eterna ragazza che continua a stregarti con sorrisi, disponibilità, passione. L’orgoglio di Puglia. Punto.
Buongiorno Flavia. Siamo ancora qua...
«Questa è casa mia».
Sa di aver fatto un bel regalo alle nuove leve di Puglia e Basilicata?
«Mi ha invitato Michelangelo Dell’Edera spiegandomi che ci sono ragazzine molto brave. E mi sono divertita».
Quanto le manca il tennis?
«Gli allenamenti, tantissimo. La competizione, no».
Non basta giocare bene. Vero?
«Non è l’unica cosa che conta, certo. Però chi ha facilità di esecuzione parte avvantaggiato».
E la parte mentale?
«Fa la differenza ma soprattutto alla lunga. A 13-14 anni non puoi pretendere chissà cosa».
La testa si allena?
«Forse no. Ma c’è chi può aiutarti. L’allenatore, per esempio, non deve essere un riferimento solamente in campo».
Lasciare casa è un azzardo o una scelta necessaria?
«Io ci ho messo un po’. Due rifiuti prima di trasferirmi a Roma e poi a Milano. Al secondo anno delle superiori mi sono convinta».
All’estero sono più bravi di noi?
«Dipende. Io potevo andare negli Stati Uniti ma non me la sono sentita. Poi in Spagna, a 28 anni, ho fatto il definitivo salto di qualità trovando la dimensione ideale».
La Puglia, con l’esempio di Pellegrino che si allena al New Country di Bari con Vincenzo Carlone, rivendica un ruolo primario.
«Qui da noi c’è tutto. Maestri, dirigenti, strutture. Il problema nasce solo quando c’è bisogno di competitività negli allenamenti».
Quali sono gli errori che un ragazzino non deve commettere?
«I giovani vanno lasciati liberi di esprimersi. E anche di sbagliare, evidentemente. Anche perché, poi, si impara».
Le vittorie o il percorso?
«A 14 anni vincere vuol dire pochissimo. E non è tutt’ora quello che luccica. Quando vinci spesso le pressioni raddoppiano e cominciano i problemi alle prime difficoltà. Conta più la crescita. Io a 14 anni non ero granché».
Il ruolo della famiglia.
«Determinante, in un senso e nell’altro».
Con la sua com’è andata. Suo padre Ronzino è un vecchio uomo di sport.
«Abbiamo battagliato a lungo, diciamo fino alla mia maturità».
Cioè?
«Vuol saperlo? Lui si sentiva un grande coach (e giù una risata, ndr). E si insinuava spesso in discorsi tecnici. Io gli dicevo “prima di chiedermi com’è andata in campo devi dirmi come sto”».
A proposito, come sta Fabio Fognini?
«Benone. Pronto a ripartire».
Cosa le racconta sugli stadi vuoti?
«Che è tremendo. Ma ormai si sono abituati».
Un salto indietro. Quali sono state le avversarie che soffriva di più?
«Serena Williams perché era capace di fare di tutto. E la Ivanovic. Ero convinta tirasse a caso. Ma magari non era così. Forse ero io non in grado di leggere le sue traiettorie».
Se il suo vecchio maestro Michelangelo Dell’Edera le chiedesse di diventare un tecnico?
«Mi piacerebbe. Ma non potrei mai partire dai baby. Ma vorrei poter incidere su percorsi già avviati».
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