Da Jeeg Robot a La città proibita, il regista, produttore, compositore e sceneggiatore Gabriele Mainetti, ospite da ieri (fino al 10, quando terrà una conferenza stampa a Palazzo Lanfranchi) della sesta edizione del Matera Film Festival in programma fino al 16 novembre, racconta alla Gazzetta la sua visione di cinema che trova la sua forza creativa nelle imperfezioni e negli sguardi fuori copione. «Un’autenticità - rimarca alla Gazzetta - che non potrà mai essere replicata dall’intelligenza artificiale. La mia ancora di salvezza - dice - sono gli attori. È negli errori umani che si nasconde quello slancio creativo che lo spettatore percepisce come vero e autentico».
Sul set Mainetti porta con sé l’esperienza da attore, «conosco i tempi e so perfettamente che tra quello che si immagina e quello che alla fine si realizza c’è un grande differenza - dice -. Lavoriamo con gli altri e ognuno porta una parte di sé che non si può prevedere. La struttura è piramidale, è vero - sottolinea - ma essere regista significa conoscere gli elementi della squadra per valorizzare al massimo i punti di forza».
Parlando del suo ultimo film, La città proibita, il regista racconta che le difficoltà non sono mancate: «Fare un cinema come il mio - spiega - significa mettere in moto una macchina molto grande. Però, avendo già fatto questa esperienza con “Freaks out”, siamo riusciti a rispettare i tempi, grazie all’intenso lavoro fatto in fase di preparazione».
Quanto ai maestri che hanno influenzato la sua visione artistica, Mainetti cita subito il regista Mario Monicelli: «È per me un faro - dice -. Amava personaggi pieni di difetti che in qualche modo hanno raccontato l’Italia del tempo con grande lucidità. Oggi bisognerebbe tornare a raccontare figure ricche di sfumature calate in contesti assurdi o folli. Il personaggio, in questo modo, diventa il veicolo emotivo che permette allo spettatore di entrare in un mondo assurdo. È questa la regola che seguo sempre».
I film di Mainetti raccontano storie di personaggi segnati da esperienze difficili, «tuttavia - continua il regista - non dimentico mai che il cinema è un gioco ma un gioco molto serio, l’ho imparato dalla mia esperienza come attore. Negli Stati Uniti, dove ho vissuto, recitare si dice to play, ovvero giocare. Ecco voglio continuare a giocare come quando da bambino giocavo a fare il cowboy nella mia stanza e mettevo il volume della tv al massimo per ascoltare il tema del “fischio” dei titoli di coda. Quel livello di gioco non l’ho mai perso: voglio continuare a divertirmi raccontando ciò che vedo».
Sulla scelta degli attori, «a volte scrivo pensando a un attore preciso, questo vale per Sabrina Ferilli che interpreta Lorena ne “La città perduta”. In “Basette” invece ho scritto pensando a Marco Giallini e Valerio Mastandrea. Dissi loro : “se non lo fate voi, il film non lo faccio”».
Quanto ai prossimi progetti, il regista non si sbilancia ma, dice, «la sceneggiatura è pronta, spero di iniziare nel 2026».
















