Un padre e una figlia. La storia dell’amore più grande che una donna conserva per sempre. Il tempo che ci vuole di Francesca Comencini è una lettera d’amore al Cinema e a suo padre che le ha insegnato che la favola è sentirsi amati. Il doloroso racconto degli anni difficili della protagonista che teme di essere la delusione di un padre straordinario si fa poesia quando la scrittura del film pone sulla scena, soli, un uomo e una giovane donna che aspettano insieme che la tempesta passi e la paura muti in coraggio, la sofferenza in grazia. A quasi un anno dalla presentazione a Venezia Il tempo che ci vuole continua a raccogliere successo e riconoscimenti e anche all’Ischia Film Festival la proiezione, dentro la cattedrale dell’Assunta dove il tetto è il cielo, commuove e incanta.
Il tempo che ci vuole ha a più di un anno dalla sua presentazione a Venezia un successo veramente grande...
«I film hanno delle vite più lunghe di quelle che ci si immagina. Il successo del film è forse dovuto al fatto che questa storia così intima, ma che è una storia universale, è stata sentita con grande emozione, sta continuando a raccogliere una grande onda d’amore. Volevo con il mio racconto colmare la frattura generazionale, perché riuscire a comunicare con i giovani è importante e il rapporto padre-figlia è stato forse troppo poco raccontato dal cinema. Ma quella con il padre è una relazione fondamentale che ogni figlia e ogni donna porta dentro di sé per sempre».
Quale messaggio crede sia arrivato ai giovani?
«Mi piace pensare che abbiano potuto imparare l’autorizzazione al fallimento, che si può e che si deve fallire e che se non attraversi la possibilità della delusione, della frustrazione, dell’errore non cresci. Credo che i giovani ai quali riconosco grande forza e capacità, si sentano paralizzati dai giudizi, dall’ingiunzione alla riuscita, al successo veloce. Invece nel film un padre dice a sua figlia che alla sua età anche lui non sapeva chi era, cosa voleva e che ha fallito tante volte. Nella mia famiglia ci siamo buttati nelle cose con la passione per l’arte, per la politica. I giovani oggi sono iperqualificati ma soli, non sono aiutati a realizzare i sogni, a costruire carriere. Dobbiamo fidarci dei giovani, del loro talento. Ho tre figli e so quanto è importante sorreggerli negli esordi. Credo che ai ragazzi possa pertanto giungere da questa storia un messaggio rassicurante».
Il tempo che ci vuole è una favola perché ha un lieto fine, perché dice, dimostrandolo con la sua storia, che la passione salva, l’amore salva e che sono i progetti ai quali consacriamo una vita, i sacrifici che sopportiamo ciò che determina il nostro destino, la qualità e l’identità?
«Assolutamente sì! I progetti, il lavoro, le esperienze condivise».
Negli ultimi anni il cinema ci ha mostrato il maschile in negativo. Il suo film invece ci restituisce una figura di uomo straordinaria, un padre che sa essere materno, provvidente che con la sua cultura, la sua visione della vita, con la consapevolezza di ciò che sa ed è, aiuta la figlia a rinascere, a costruire se stessa, a guarire da tutte le ferite. Crede quindi che la cultura ci salvi?
«Mi ferisce vedere in questo momento storico sotto attacco, come se non fosse un bene comune, il più prezioso, è assurdo che diventi un terreno di scontro soprattutto in Italia. È incredibile che si debba dimostrare e ribadirlo che con la cultura si mangia, si cresce. Mio padre è un uomo che ha fatto la sua scommessa di vita sulla cultura e ha trasmesso questo a me. La cultura non è decorazione, qualcosa per cui atteggiarsi. Al contrario, la cultura è ciò che ti rende umile, meraviglioso e forte. La cultura è ciò che ti dà un codice per vivere con gli altri una esperienza umana, alta, d’amore. C’è una drammatica impreparazione soprattutto negli uomini a vivere un abbandono, ad elaborare il dolore. Beh credo che i film, l’arte, i libri aiutino ad affrontare la complessità della vita e delle relazioni».
«Può dirci a cosa sta lavorando? C’è un progetto in particolare?
«Sì. Vorrei raccontare alle ragazze di oggi, e non con un film noioso, a temi, un pezzo della storia del nostro paese e più in generale dell’emancipazione femminile conquistata anche con il femminismo degli anni Settanta. Le donne devono sapere quale eredità abbiamo raccolto e dobbiamo proteggere: lotta per i diritti, conquiste di libertà. Le donne che hanno vissuto negli anni Settanta sono scese in strada, hanno combattuto e vinto perché si affermassero valori con i quali noi oggi possiamo affermarci nel lavoro e rivendicare ruoli e spazio di azione. Quel femminismo non è mai stato raccontato nel modo giusto».
Quest’anno ricorrono i quarant’anni dalla morte di Elsa Morante. Lei trent’anni fa le ha dedicato un documentario. Perché?
«Amo Elsa Morante, la sua scrittura, il significato della sua opera. Ogni volta che apro un suo libro, mi ritrovo, non mi sento più spaesata! Ho voluto fortemente realizzare quel documentario. È una intellettuale straordinaria e insieme a Natalia Ginzburg e ad Anna Maria Ortese è tra i più grandi del nostro Novecento. Hanno dato parole, poesia e forza e il loro sguardo sul mondo è molto femminile. Elsa Morante è una grande maestra della mia vita. Lei diceva in un saggio contro la bomba atomica che uno scrittore si debba occupare di tutto tranne che di letteratura. Lei lo ha fatto!».
Tornando per un attimo di nuovo a Il tempo che ci vuole la scena che chiude il film vede volare padre e figlia verso una felicità condivisa, quella che nasce dall’amore per il cinema e per l’altro. È una citazione neoplatonica? Vuole forse dirci che l’amore ci mette le ali?
«Nel film ci sono molte citazioni, alcune letterarie come quella che riporta alla Coscienza di Zeno, al senso di inadeguatezza di un figlio nei confronti delle aspettative di un genitore e altre squisitamente cinematografiche. Nell’ultima scena la reference è in Miracolo a Milano ma pensavo anche agli innamorati di Chagall felicemente in volo».
















