PRISTINA - Quasi come in tutto l’Est Europa, camminando per le strade di Pristina ci si sente un po’ a casa, grazie alle molte icone di San Nicola e al monastero ortodosso, a lui dedicato, costruito agli inizi dell’Ottocento. Il monastero, oltre al fatto di essere frequentato soprattutto da serbi, ci ricorda quanta storia e violenza sia passata per questa complicata città, dove proprio quelle mura, rivolte al culto nicolaiano di stampo russo, sono state incendiate, a più riprese, fino alla ricostruzione, nel 2010, con fondi UE. Le strade, i relitti della ex Jugoslavia presenti nella capitale, la periferia con molte case-famiglia di orfani o scuole-famiglia per figli di non abbienti, testimoniano come il tessuto sociale balcanico resta, ad oggi, il frutto di fraintendimenti e false promesse collegate soprattutto all’Unione Sovietica. Non solo. Quel pezzo di terra ci ricorda anche gli errori dell’Occidente e la scarsa conoscenza di un territorio dalla convivenza difficile, dove le confessioni religiose e le etnie accendono gli animi e dividono le famiglie, spesso perfino con violenza. Le storie sono tantissime. L’unico punto di intesa è quel san Nicola patrono di tutti, ma soprattutto dei marinai, dei pescatori, dei viaggiatori (cattolici, ortodossi o di altre confessioni cristiane).
Il post Milosevic, ammirato da Putin. E allora i fili della storia si riannodano ai fatti più recenti, passando per quella lezione sempre attuale di Predrag Matvejevic (un po’ russo di Odessa, un po’ croato), collegata al post Milosevic: «Sapeva manipolare sia con le parole, che con le sue apparizioni. Esclamerà abbiamo battuto la Nato, per poi aggiungere che la Serbia deve lasciare che la Nato assuma il controllo del Kosovo e lo occupi. Non è colpevole di tutto il male che è accaduto, ma poteva, molto più di chiunque altro, impedire che accadesse in quel modo e in quelle proporzioni. Ha lasciato spesso una buona impressione nei suoi interlocutori, sia stranieri che locali. Fino ai colloqui di Dayton 1995 molti lo consideravano il più capace e il più fidato con cui trattare. Una parte della sinistra europea, poco informata delle nostre circostanze, lo considerava un uomo di sinistra. Sapeva scherzare, a differenza dei classici tiranni che non tollerano lo scherzo, o a differenza del suo interlocutore Franjo Tudjman che rideva con mezza o un quarto di bocca. Di cosa loro due abbiamo parlato in oltre quaranta incontri durante la guerra e perché si siano incontrati così tante volte, rimarrà a lungo un segreto. La divisione criminale della Bosnia ed Erzegovina entrambi l'avevano presa in considerazione sin dall'inizio. Se non fosse stato così, forse avremmo potuto dividerci in modo diverso, senza tutti quei cadaveri e quelle sfortune». Secondo il germanista Marino Freschi Matvejevic è stato l’interprete migliore di tutto quel territorio, perché è appartenuto a quella koiné culturale e spirituale che dall’Adriatico si estende a Praga, a Cracovia, a Budapest fino alle comunità yiddish della Galizia, della Bucovina. Matvejevic avrebbe potuto dirci tanto sulla questione dell’Ucraina oggi.
Milosevic, in fondo, è stato un modello per il nuovo “zar” russo. In un saggio di quest’anno, intitolato Slobodan Milosevic and the Construction of Serbophobia di David Bruce Mc Donald dell’Università dell’Ontario si spiega che mentre serbi e croati si contendevano (e lo fanno ancor oggi) la memoria della Seconda guerra mondiale, il tema del “genocidio incombente” sui russi del Donbass è diventato, sempre più, la bandiera di Putin e delle truppe mongole o cecene, mandate in Ucraina, sin dal 2014, per “denazificarla”. I colloqui per le tensioni fra Pristina e Belgrado, con la presenza dell’Unione Europea e degli Stati Uniti, si sono spostati sul versante serbo per tentare la de- escalation. Intanto l’ISPI ha analizzato questa crisi in corso con alcuni ambasciatori, fra cui Michael Giffoni, già ambasciatore italiano in Kosovo, per cercare di andare alle radici di questa tensione mai davvero sopita nei Balcani. Giffoni ha voluto ricordare l’espressione dello scrittore Calvino utilizzata, proprio da lui, nel 2021: «Fra Belgrado e Pristina c’è un dialogo fra sordi, mediato da ciechi». Di recente ha ribadito la metafora, specificando come gli attuali pericoli di quell’area siano il frutto anche di un linguaggio diplomatico basato sulla cosiddetta “ambiguità costruttiva”, un modo di operare che, invece, ha creato effetti distruttivi, in particolare a causa di finalità eterogenee non condivise (o in parte semplicemente fraintese proprio per la non chiarezza). Che cosa vuol dire questo concretamente? Innanzitutto, come precisato dall’autorevole diplomatico, gli accordi del 2013 sembrarono essere, dinanzi al resto d’Europa, una vera e propria svolta; nel concreto questi sono stati il “peccato originale” alla base di un momento sì felice, ma ambiguo, perché per Pristina e per Belgrado la frase “normalizzazione dei rapporti” aveva decisamente risvolti diversi. «Nel momento in cui si passò dai dialoghi tecnici a quelli diplomatici – aggiunge Giffoni – Belgrado (e i suoi sostenitore esteri, fra cui la Russia) ritennero di tradurre quella normalizzazione in un semplice aggiustamento delle relazioni con le genti serbe». Un punto di vista abbastanza simile è stato espresso dal prof. Parsi, il quale ha voluto ricordare come il Kosovo (e il resto dei Balcani) sono, ad oggi, la dimostrazione di un mancato processo di integrazione, che rivelerebbe la fragilità diplomatica dell’Occidente.
Alla questione politica si aggiunge quella delle risorse ambientali. Il Kosovo, da tempo, continua a produrre la sua energia basandosi su due vecchie centrali a carbone alla periferia di Pristina. I dati relativi all’aumento dei tumori ai polmoni e delle leucemie sono pericolosamente in crescita, andando a colpire anche i bambini, i quali spesso avrebbero bisogno di periodi lontani da quell’area, anche con brevi percorsi di affido per controlli medici. Il Kosovo resta uno dei Paesi più inquinati e più poveri d’Europa, con strutture sanitarie decisamente arretrate. Nel Paese, però, ci sono materie prime preziose e rare, che contribuiscono solo ad amplificare tensioni, soprattutto perché alcuni partner internazionali (legati tanto a Serbia quanto a Kosovo), anche a costo di rallentare la transizione verde, continuano a guardare a quei luoghi solo nella logica del profitto.