È buio, fa freddo e non è una favola a lieto fine prima di rimboccarsi le coperte e abbracciare il peluche preferito. No, il buio non è quello della lucetta azzurra da camera che si spegne, ma quello mostruoso della violenza in un garage. Buio della mente, buco nero, voragine. Nulla che si voglia sentire e vedere nelle favole pur sul rassicurante divano di casa. Ma troppo spesso, ormai, la realtà supera la fantasia, genera incubi, lascia segni indelebili. Sul corpo e nella mente. E non basta chiudere il libro e dirsi che, per fortuna, non è vero niente. Il caso della bambina – già, bambina; a 13 anni si dice ancora così – vittima di una violenza forse di gruppo ha scosso una comunità generando tutta una serie di interrogativi.
Non vi è dubbio che ogni epoca porti con sé le sue ferite; violenza è stata la guerra, e lo è ancora nel mondo che credevamo non più toccato da conflitti di così vasta portata; violenza è la povertà alla guerra connessa; violenza è la malattia che ancora fende i corpi, lacerandoli, lì dove la robotica e l’intelligenza artificiale promettono elisir di vita, se non eterna, di certo allungata. Violenza, neanche a dirlo, è il prendere possesso del corpo di qualcuno perché questo qualcuno è stato ridotto a merce di uso e consumo.
Ci mettiamo tutti nei panni dei genitori di presunte vittime e presunti carnefici fino a quando la Polizia non accerterà i fatti. Vogliamo provare a capire, a riflettere insieme cercando ove possibile una luce che rischiari questo baratro. È senz’altro difficile il mestiere di genitore: nessuna scorciatoia, le cose si capiscono per prove negative ed errori e i figli – figli del benessere e di un’apparente normalità – sono invece quegli ‘estranei’ che in una notte qualsiasi tolgono il sonno per sempre a mamma e papà; loro, portatori delle più agghiaccianti delle notizie. Forse occorre che si dia a questi bambini e a questi ragazzi una narrazione della realtà fatta di sguardi, tenerezze, comprensioni, tempo.
Spiegare loro che il corpo altrui non è un oggetto ma scrigno che esige rispetto. Provare a giocare insieme, a parlare, ad accogliere soprattutto nelle fragilità. E sapere, infine, che se una rete ha una maglia più larga o sfilata intervengono docenti ed educatori a far sì che dal trapezio non cada nessuno. Diceva Madre Teresa che i genitori devono essere affidabili, non perfetti. E la perfezione, la bellezza, come le perle nate dall’ostrica intaccata, hanno sempre a che fare con una ferita cicatrizzata.