Sergio Fontana, presidente di Confindustria Puglia, ha letto con attenzione l’intervento del deputato dem Claudio Stefanazzi sui fondi per il Meridione e l’azione del governo Meloni pubblicato l’altro giorno dalla Gazzetta. Stefanazzi, tra le altre cose, paventa il rischio che il governo stia riesumando le logiche della Cassa del Mezzogiorno e dell’IRI: presidente lei è d'accordo?
«Intanto va detto che l’esperienza della Cassa del Mezzogiorno non fu tutta fallimentare. Alcuni recenti studi hanno dimostrato infatti che il primo periodo d’azione della Cassa, guidata da una governance tecnica e centralizzata, ebbe effetti molto positivi sulla crescita economica delle regioni meridionali. Con questo, però, non voglio dire che si debba preferire il centralismo ai poteri dei governi locali. Non si tratta di contrapporre centro e periferia. Si tratta di capire se vogliamo raggiungere una unità d’intenti fra governo nazionale e governi regionali, per spendere presto e bene l’ingente quantità di risorse che abbiamo a disposizione. Le nostre imprese hanno bisogno di una politica industriale e di una politica di investimenti unitaria e coerente. Per attuarla occorre mettere da parte i particolarismi e remare tutti dalla stessa parte. Per questo dico che un coordinamento fra Regioni, Governo e Unione Europea è cosa buona e giusta. Gli Accordi fra Ministero per il Sud e Regioni, previsti dal recente Decreto legge per le politiche di coesione, mirano proprio ad un raccordo centro- periferia sull’utilizzo delle risorse comunitarie affinché gli investimenti siano il più coerenti possibile con gli obiettivi della programmazione europea».
Il ministro Fitto dice che le Regioni non sanno spendere i fondi nazionali ed europei: è questo il «peccato originale»?
«Nella programmazione 2014-2020 la Regione Puglia è stata fra le più efficienti d’Italia ed ha attuato misure efficacissime per le imprese. Per quanto riguarda il Fondo di Sviluppo e Coesione molte delle Regioni del Sud non hanno brillato nella spesa delle risorse a disposizione. Per questo è giusto fare chiarezza su quanto sino ad oggi è stato impegnato, su quanto è stato realmente speso e soprattutto su ciò che è stato rendicontato. Ma il vero peccato originale non è questo. È il fatto che le regioni del Sud, dopo i vari cicli di programmazione comunitaria, siano classificate ancora come regioni Obiettivo 1 dell’Unione Europea, cioè territori con un PIL pro capite molto inferiore alla media dell’Unione. Questo vuol dire che, anche se abbiamo speso risorse comunitarie, non abbiamo ancora raggiunto l’obiettivo reale per il quale quei fondi ci vengono attribuiti. Credo quindi che sia necessario che le amministrazioni regionali e quelle centrali facciano un salto di qualità nella capacità di investire le ingenti risorse che abbiamo a disposizione fra Fondi strutturali, Fondo di Sviluppo e Coesione e PNRR».
C’è il rischio che le prerogative dei territori siano ridotte all’osso?
«Io non vedo questo rischio, perché, come è stato ribadito su questo giornale qualche giorno fa, gli Accordi con il Ministero per il Sud non è detto che rappresentino uno svantaggio per le Regioni, perché esse continueranno comunque a farsi portatrici di proprie proposte di sviluppo e potranno meglio armonizzarle con obiettivi di rango nazionale ed europeo. Inoltre, il fatto che le Regioni elaborino con il Ministero un preciso cronoprogramma, con un chiaro piano finanziario, non può che rappresentare un progresso in termini di efficienza non solo per le Regioni, ma per tutti gli apparati amministrativi. Purché ciò avvenga senza ritardi burocratici e contrapposizioni ideologiche. Se c’è un rischio, per me, è quello che la politica si lasci andare a conflitti sterili e a particolarismi, creando una contrapposizione fra centro e periferia, che nuoce ai cittadini e alle imprese».
Non sarebbe stato meglio chiamare gli enti locali ad una responsabilità collettiva rispetto al destino del Sud?
«Un appello alla responsabilità collettiva va fatto a tutti, ai Comuni, alle Regioni, al Governo e anche alle imprese e ai sindacati, perché ora tutti devono fare squadra, tutti noi dobbiamo vincere la sfida di una transizione epocale, che altri Paesi stanno attraversando con maggiore coesione istituzionale e con una politica industriale molto più incisiva».
Quali sono le aspettative del mondo delle imprese?
«Dopo due anni di forte ripresa, ora leggiamo segnali di indebolimento dell’economia. La crescita, rallenta, è più fragile. Il calo dell’inflazione è stato lento per ridare fiato alle imprese, mentre invece il credito si fa sempre più caro. Questo sta pericolosamente frenando i nostri investimenti, proprio in un momento in cui bisognerebbe investire di più in sostenibilità e digitalizzazione. Dallo Stato non ci aspettiamo aiuti a pioggia e non vogliamo spese improduttive. Ci aspettiamo invece che ci dia la possibilità di continuare a investire. Se lo farà le nostre imprese sapranno crescere ancora una volta e creare ancora ricchezza per loro e per tutto il Paese. Abbiamo enormi risorse da spendere, dobbiamo solo spenderle, spenderle in tempo e soprattutto spenderle bene».