Mahnaz ha riferito di essere stata lasciata libera verso le 19 e 30 nella città di Baghdad e di essere tornata a casa in taxi. La ragazza ha aggiunto di essere stata trattata bene ma di non avere idea di chi fossero i suoi sequestratori. Abdul Aziz e Mahnaz festeggiano ora nelle proprie case la fine di una lunga prigionia che deve essere apparsa loro ancor più cupa e angosciosa rispetto alle colleghe straniere, che sapevano di poter contare sul governo italiano e sulla solidarietà internazionale.
Ai loro rapitori, Abdul Aziz e Mahnaz hanno potuto opporre una sola cosa: la validità del loro lavoro: «Nel nome di Allah, clemente e misericordioso - diceva il giovane ingegnere nel video in tre lingue, italiano, inglese a arabo, diffuso una settimana fa da «Un ponte per...» nel tentativo di smuovere i cuori dei sequestratori, per ricordare chi fossero i quattro operatori umanitari sequestrati il 7 settembre - mi chiamo Raad Alì Abdulaziz, ho 35 anni, sono di Baghdad. Lavoro per l'Organizzazione umanitaria Un ponte per Baghdad. Mi occupo della distribuzione di acqua pulita, della manutenzione degli impianti di depurazione, della ristrutturazione delle scuole».
«Il mio nome è Manhaz Bassam - affermava a sua volta l'operatrice irachena in quel video che è non era solo un appello per la liberazione degli ostaggi ma anche una dichiarazione d'amore nei confronti dell' Iraq - ho ventinove anni e lavoro in alcune scuole di Baghdad con una organizzazione umanitaria italiana. Organizzo attività ricreative per i ragazzi delle scuole elementari come corsi di pittura, scultura, calligrafia». Quel sette settembre il commando dei rapitori, dopo aver fatto irruzione negli uffici della Ong a Baghdad, aveva costretto tutte le persone a radunarsi nel cortile. Gli uomini armati avevano poi chiesto i nomi a tutti gli operatori presenti nell' ufficio, e sulla base dei nomi avevano scelto chi portare via: le due Simone, l'ingegnere e la ragazza, forse con l'intento di usarli come interpreti. I testimoni raccontarono che Mahnaz fu l'unica a tentare di reagire. I sequestratori la portarono via tirandola per il velo che lei, come ogni musulmana, portava legato intorno al viso. Quindici giorni dopo la madre della ragazza, Sukaina, affidò all'Ansa un suo appello, chiedendo ai rapitori di liberare la figlia e le sue amiche, «in nome dell'Islam».
«Mia figlia - disse - lavora con il solo scopo di servire il popolo iracheno, e non ha mai avuto nessun legame né con la politica né con gli americani». I due ostaggi iracheni non sono mai stati dimenticati: 'Un ponte per...' e Intersos si sono prodigati per salvare le loro vite, sottolineando l'impegno dei loro collaboratori, vera spina dorsale su cui si reggono le Ong. «Sono i collaboratori locali - ha riconosciuto Nino Sergi, segretario generale di Intersos - che garantiscono la continuità dell'azione anche nei momenti più difficili, sono loro che guidano, consigliano, sostengono e sorvegliano le operatrici e gli operatori volontari italiani garantendo l'indispensabile conoscenza della realtà, della lingua e della società locale».
















