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La testimonianza
Palmina Nardelli
03 Dicembre 2020
Se c’è un aspetto che in questa pandemia è emerso in modo più che mai chiaro è l’importanza sul territorio dell’assistenza sanitaria ai malati. Un’assistenza che dovrebbe evitare il ricovero per quanto necessario, alleggerendo, in tal modo, il carico per gli ospedali, garantendo un approccio umanizzante ai pazienti. Per questo sono scese in campo le Usca, Unità speciali di continuità assistenziale.
A far parte di uno di questi presìdi è la dottoressa Annarita Casulli, 31 anni, nata a Putignano, cresciuta a Noci, laureata a Genova. Ora vive, da sola, nella città del Carnevale.
Al secondo anno di specializzazione in Medicina generale, ecco che la pandemia ha scombussolato la normalità del suo quotidiano. Decide di partecipare al bando per le Usca, stimolata a farne parte perché concorre al cumulo del monte ore previsto per la sua specialistica.
Racconta: «Inizialmente, dopo il primo lockdown, gli interventi richiesti erano pochi. Dopo un periodo finestra di due settimane abbiamo ripreso a metà agosto. Poi, con l’aumento dei casi di contagio, ho dato il mio aiuto sia nel contact tracing sia facendo i tamponi».
La formazione del futuro medico di famiglia ha subìto uno scossone dalla seconda ondata autunnale: «Saltato il periodo di tirocinio in ospedale, non essendoci una specifica organizzazione e mancando i dispositivi di protezione, mi sono ritrovata nell’Usca - racconta -. Visitiamo per tempo chi presenta sintomi iniziali di contagio e lavoriamo in stretta collaborazione con i medici di base».
Come siete organizzati? «Nella mia Usca siamo due medici, l’infermiere, pur previsto, non c’è. Il turno è di sei ore ma delle sei visite domiciliari programmate ne riusciamo a farne a volte solo tre».
Ingrediente principale, oltre naturalmente alla preparazione medica, è l’arte di arrangiarsi. Infatti Annarita e il suo collega si cambiano all’aperto, vicino all’auto. Hanno le loro divise verdi e si bardano con i dispositivi di terzo livello mentre qualche passante li osserva incuriosito mentre indossano le «tute da astronauti».
La giovane dottoressa confessa: «Preferiamo fare la vestizione all’aperto per non rischiare contaminazioni, anche se ora il freddo si fa sentire - chiarisce -. II nostro pensiero è l’ammalato che ci attende, che quando ci vede si sente, finalmente, preso in carico».
La grande criticità è «essere sotto organico. Dovremmo essere dieci medici Usca per postazione, per avere dei turni che ci permettano di riposare durante la settimana. Nella mia siamo solo in tre. Ne risentiamo perché ci manca il necessario riposo». Che cosa le manca di più? «Il mio pianoforte a coda, rimasto a casa dei miei».
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