In Moldavia e in Romania il rumore della guerra è lieve, eppure le genti scappate dall’Ucraina hanno attraversato questi due confini per mesi, sotto i riflettori di tutto il mondo. L’accoglienza, fortunatamente, non ha tardato ad arrivare, spesso aprendo, però, notevoli interrogativi dinanzi alle coscienze europee: come mai esistono profughi di serie A e altri più dimenticati degli ultimi dimenticati?
Abbiamo parlato, in queste ore del Natale ortodosso, con un vecchio amico, padre Florin, un tempo parroco a Calarasi, dove gli ortodossi, per anni, hanno vissuto in discordia, divisi fra la giurisdizione di Mosca e quella del Patriarcato di Bucarest. Padre Florin, già nel 2018, aveva rilasciato una lunga intervista per raccontare le difficoltà della sua chiesa, le divisioni interne, le contraddizioni russe. Oggi, dopo un anno di guerra nella vicina Ucraina, abbiamo voluto parlare con lui di questo Natale di sangue alle porte della sua terra.
Lei è rumeno, ma per lungo tempo ha esercitato il suo ministero in un villaggio a 60 km da Kiev; poi si è trasferito qui, quasi segretamente, lasciando quella terra divisa, in difficoltà già da molto tempo. Che Natale è questo per lei?
«Per me, ma per gran parte dei miei fratelli in Romania, questo è un Natale di grande afflizione, anche perché abbiamo partecipato alla tragedia ucraina in maniera più che attiva, spesso rischiando anche la nostra sicurezza personale ai confini. Sono stato volontario sia in Moldavia che nel mio Paese, ho dato ospitalità a diverse famiglie, ho poi accolto, nella mia casa, alcuni bambini in attesa del ritorno dei loro genitori. La situazione, al momento, non migliora e fra “successi” alterni, ora ucraini ora russi, i morti si moltiplicano, senza che la Chiesa di Mosca sappia fare la scelta giusta, l’unica possibile: la pace. Putin e Kirill non sembrano rendersi conto che non ci sarà mai una vittoria in questa situazione di sangue. Non vincerà Mosca e non vincerà Kiev se il conflitto andrà ancora avanti. Da questa guerra si esce solo con una trattativa diplomatica. Che cosa sta aspettando Biden per prendere le sorti in mano? Certamente non possiamo affidarci alla Turchia. Credo sia fin troppo evidente il rischio di ricatto che si potrebbe correre, anche in Europa».
Il Natale ortodosso si svolge, tanto in Ucraina quanto in Russia, che in molta parte dell’Est, sotto il simbolo del grano: simbolo attualissimo dell’anno appena trascorso…
«Il grano del nostro Natale è simbolo di vita, di prosperità… Invece nel 2022, a causa di questa guerra, il grano è diventato una minaccia di morte, un’arma di guerra, una bomba a orologeria per tutto il Mediterraneo, affamando tanto il Libano quanto la zona del Sahel».
Mentre parliamo, via Skype, giunge la notizia della violenta rappresaglia di Mosca a Kramatorsk, anche se smentita da Zelensky e dai suoi. Di certo sono tantissimi i giovani ucraini e i giovani russi morti in questo anno. Che cosa si sente di dire a quelle famiglie?
«Il Natale, qui in Romania, ha delle sfumature folkloristiche: grande gioia, danze, caramelle distribuite da San Nicola… Si uccide il maiale più grasso e si fa festa con parenti e amici. Tutto questo, invece, oggi non ha senso. Nessuno ha molta voglia di festeggiare, anche perché i Paesi limitrofi hanno paura, mentre guardano le sorti dell’Ucraina. Per prima cosa, dunque, vorrei dire a queste famiglie che noi tutti siamo solidali e partecipi verso quel dolore così vicino, visto e sentito, in molti casi, coi nostri occhi e le nostre orecchie. L’Ucraina è allo stremo, ma di certo tutto il mondo ha imparato da quel popolo in questi mesi. Niente giustifica la guerra; ritengo che questo sia stato detto molte volte, ma un popolo ha anche il dovere di difendere la sua nazione, la sua sovranità, la sua stessa esistenza. Alla religione spetterebbe invece il compito di pregare e seppellire i morti: nessun credo osi prestare il fianco alle guerre. È accaduto già troppe volte nella storia e la Chiesa di Mosca dovrebbe comportarsi diversamente».