Sale di livello la tensione in Kosovo. Nella notte tra sabato e domenica c’è stato un attacco con granate stordenti contro i «poliziotti» dell’Unione Europea di pattuglia nell’ambito della missione Eulex di cui fanno parte anche militari italiani e carabinieri. Fonti qualificate del sistema della Difesa nazionale, però, dicono alla Gazzetta che «nessun nostro connazionale è coinvolto».
La conferma ufficiale dell’attacco è arrivata proprio dalla missione europea che, sui suoi canali social, ieri ha scritto: «Confermiamo che una granata stordente è stata lanciata contro una pattuglia di ricognizione Eulex la notte scorsa (10/12) vicino a Rudare. Nessun agente dell’unità di polizia Eulex è rimasto ferito e non sono stati causati danni materiali. Questo attacco, così come gli attacchi agli agenti di polizia del Kosovo, sono inaccettabili. Condanniamo fermamente gli atti violenti perpetrati da persone armate nel nord del Kosovo, anche contro la comunità internazionale. Eulex continuerà a lavorare con determinazione per sostenere la stabilità del Kosovo, entro i confini del suo mandato, e contribuire alla sicurezza della sua popolazione da parte di tutte le comunità».
Una granata stordente, dunque non un ordigno “tecnicamente” mortale, ma una bomba a mano non letale e comunque idonea a mettere temporaneamente ko i malcapitati, con accecamento, perdita di udito e di equilibrio. Un’azione dimostrativa che giunge a valle di una escalation estremamente preoccupante e che merita di essere guardata nel suo caleidoscopio di dimensioni o almeno, volendo semplificare, nella sua duplice dimensione micro e macro. Nel «micro» bisogna rilevare come in questi giorni sia insorta la minoranza serba che vive in Kosovo con blocchi stradali, barricate e spari per tentare (invano) di impedire l’arresto di un ex poliziotto serbo, Dejan Pantic. Nel «macro», solo un paio di giorni fa Pristina ha rinviato all’aprile 2023 le elezioni municipali, fissate il 18 dicembre, nelle quattro municipalità nordkosovare a maggioranza serba. Una decisione “distensiva” su cui ha pesato la pressione del Quintetto (Italia, Germania, Francia, Regno Unito e Stati Uniti) che ora - ma sono mesi che va avanti così, di crisi in crisi - si ritrova con una situazione ancora più tesa. Ricordiamo che il piccolo Paese filo-atlantico gioca una partita assai delicata per l’Ue cui il 15 dicembre dovrebbe chiedere ufficialmente di aderire, quando ancora ci sono Stati membri, come Grecia e Spagna, che non ne riconoscono neppure l’indipendenza. E poi c’è la Serbia, anch’essa in lenta marcia verso l’Ue, ma sottoposta alle immani pressioni di Mosca e Pechino. Quanto di questo “pressing” conti sulle barricate spuntate nel nord del Kosovo non è dato sapere. Di certo, chi blocca le strade è consapevole che così facendo sconfessa l’efficacia dell’operazione Nato Kfor che proprio della «libertà di movimento» è garante. L’Occidente compatto, con Usa, Nato, G.B. e l’Alto rappresentante dell’Unione per affari esteri e politica di sicurezza, Josep Borrell, chiede che i blocchi siano rimossi «immediatamente». Se non accade, oggi il premier Albin Kurti è pronto all’intervento kosovaro. Un’ipotesi che spinge il presidente serbo Aleksandar Vucic a chiedere l’ok alla Nato a schierare proprie armate a difesa della minoranza serba in Kosovo. Una richiesta «inaccettabile» per la Germania.
E intanto nel basso Adriatico torna a stagliarsi il profilo della portaerei Usa «Bush».