BARI - Che fine ha fatto il terrorismo jihadista? È scomparsa la minaccia che per più di vent’anni ha fatto tremare i polsi all’Occidente? Non è così, ovviamente. È soltanto coperta, soprattutto a livello mediatico, dalle grandi emergenze che il mondo ha affrontato e sta affrontando e le conseguenti crisi economiche e sociali. Il fuoco però cova sotto la cenere, oppure divampa a latitudini così lontane da noi (Africa, Medio Oriente, Afghanistan) da far sembrare il fenomeno sopito.
«La pandemia prima e la guerra in Ucraina poi hanno dominato la scena negli ultimi anni e hanno allontanato dal problema l’opinione pubblica. Certo, non siamo ai livelli d’allarme raggiunti nel 2015 e nel 2016, ma l’allerta resta e sarebbe sbagliato dire che si può essere più tranquilli». Parola di Sabrina Martucci, docente dell’Università di Bari e direttrice del «Master in terrorismo, prevenzione della radicalizzazione eversiva, sicurezza e cybersecurity». «Anzi - sottolinea - le crisi seguite alle grandi emergenze, compresa l’ultima riguardante l’energia, danno la possibilità al terrorismo jihadista, che ha da sempre capacità camaleontiche, di cambiare pelle, di agire indisturbato in regioni in particolare sofferenza, penso al Centro e al Nord Africa o all’Afghanistan o sviluppando con meno ostacoli le attività che gli permettono di finanziarsi».
Quali?
«Ad esempio l’immigrazione verso l’Europa, con il traffico di esseri umani che finanzia il terrorismo del Nord Africa e del Sahel. O anche il traffico di organi ad esso collegato o le migliaia di bambini rapiti e costretti a combattere da Al-Shabaab, l’organizzazione jihadista che agisce in Somalia, Uganda, Kenia. Gli scenari di crisi, in generale, spingono le popolazioni in sofferenza a sposare la causa del terrorismo. E, in questo contesto, preoccupa la spaventosa crisi umanitaria in Afghanistan. Come pure quella siriana, dove nei campi profughi donne e bambini finiscono nella tratta. Ricordo pure che alla base del terrorismo proveniente dal Sahel ci sono i cosiddetti «eco-profughi» spinti a migrare dall’interno dell'Africa centrale verso il nord a causa dei cambiamenti climatici. Insomma, le situazioni di vulnerabilità spingono di per sé al terrorismo, anche senza la necessità di un legame col jihad politico-religioso. No, gli “alert” restano eccome, c’è solo una diversa attenzione mediatica e spesso una sottovalutazione da parte dell’opinione pubblica».
Qual è la situazione in Puglia?
«A livello locale al momento non mi risultano allarmi particolari. Bisogna tenere conto che l’attività di monitoraggio, prevenzione e controllo qui da noi è costante e particolarmente efficace, poiché si avvale di competenze consolidate. Le autorità di polizia e giudiziarie, e i settori specializzati al loro interno, vantano una lunga esperienza di contrasto ai fenomeni criminali in generale e, per la conformazione geografica della regione, anche a quelli terroristici che potrebbero essere legati all’immigrazione o alla vicinanza con i Balcani, altra area critica, specie nel Kosovo».
Può il terrorismo trovare manovalanza locale da reclutare in Puglia? Le recenti condanne a due andriesi accusati di spedire denaro per conto di jihadisti sembrerebbero confermarlo.
«Confermano quanto ho ricordato prima: le crisi economiche e sociali sono terreno fertile per il terrorismo».
Cosa si può fare per prevenire questi fenomeni?
«Sotto il profilo della sicurezza siamo in ottime mani. Bisognerebbe fare un po' di informazione in più. Vicende come quella di Andria dovrebbero essere maggiormente diffuse nelle fonti aperte, non per creare allarme ma per far sì che l’opinione pubblica abbia contezza di un fenomeno apparentemente sopito ma capace di cambiare pelle e attecchire dove meno te lo aspetti».