«Primo Maggio» scriveva mio padre. Con le maiuscole. Mi portava a spasso a sorridere ai garofani rossi sui baveri dei contadini e mi spiegava che era la Festa dei Lavoratori, ma che era anche la festa mia, di studente. Allora i genitori erano alleati della scuola che, oggi, trattano da nemica dei loro pargoli delinquenti.
Evviva il 1^ Maggio e via con i cortei, l’Internazionale, l’Inno dei Lavoratori, i comizi. Le pudibonde signorine restavano a casa rinunciando alla passeggiata per il corso e la piazza restava, per un giorno, in mano a contadini e contadine (poche), operai e operaie (pochissime), impiegati e maestre (compunte, le maestre). Molti quel giorno compravano «L’Unità» o «L’Avanti» con i titoloni infiammati, li ripiegavano e poi li mettevano in tasca, in modo che si potesse leggere il titolo per far capire come la pensavano. Lo scrittore Guareschi, un galantuomo di destra di cui, oggi, solo la sinistra sente la mancanza, li chiamava «Trinariciuti». Affettuosamente. E li sfotteva nelle vignette della serie «Contrordine compagni!». La destra d’oggi, vedendo i film di «Don Camillo» in tv, pensa che siano stati opera di uno scrittore acceso bolscevico. Così come, per i benpensanti di un tempo, bolscevica e rivoluzionaria era la Festa del Lavoro.
Più tardi mi lasciai affascinare da un quadro riprodotto sulle pubblicazioni della nostra stampa studentesca: Il quarto stato di Pelizza da Volpedo. L’artista intitolò il quadro che narrava l’avanzata, il cammino dei lavoratori La fiumana. Poi, prevalse Il quarto stato. Era quella sterminata folla di persone, uomini e donne, che non erano stati contemplati nel vecchio ordinamento dell’antico regime che si spingeva fino a tollerare il terzo stato «giacobino» di borghesi produttivi e terziari trascurando contadini e operai. Nel bellissimo dipinto bisogna fare caso alle ombre. Non alle caligini metaforiche che si annuvolano sul riscatto delle plebi, nuvole minacciose arruolate dal padronato che mal sopporta l’emancipazione del proletariato, ma a quelle corte ombre che il pittore divisionista traccia sulla strada e indicano che è mattino, che la gente marcia col sole in faccia.
Che questo sia il sole dell’avvenire lo sognavano in tanti, al tempo di Pellizza da Volpedo che, così, scrive: «Siamo in un paese di campagna, sono circa le dieci del mattino d’una giornata d’estate, due contadini s’avanzano verso lo spettatore, sono i due designati dall’ordinata massa di contadini che van dietro per perorare presso il Signore la causa comune...» Quel «perorare presso il Signore», timido e speranzoso, riassume un basto ingente di utopie. Quella donna che reca il bambino e allarga la mano sinistra con la palma in su, come ad ostèndere, con la creatura, la buona ragione della giustizia sociale che non può non essere accolta, è un capolavoro politico.
Più tardi cantammo «Fischia il vento, urla la bufera, scarpe rotte, eppur bisogna andar a conquistare la nostra primavera, dove sorge il sol dell’Avvenir». I «sobri» non cantavano, certo, ma, noi si. Così è stato, è la nostra storia. Questo auspicio canoro dava per scontato che avremmo avuto un avvenire, solo se irradiato dal sole della libertà che campeggiava, senza approdo simbolico, in un mare ondulato dalla grafica, coi raggi disuguali. E migrava, a mezz’aria, un po’ erratico, in parecchi simboli di partiti del ricco panorama della sinistra, con e senza libro o falce e martello, a segnalare una luce di speranza ch’era comune e condivisa, anche con i moderati del mondo cristiano, nell’attesa di un’alba palingenetica per gli sfruttati, i lavoratori, gli operai e i contadini, gli intellettuali disorientati, i giovani e le donne. Nei comizi questi due termini figuravano sempre appaiati: i giovani e le donne. Raramente si auspicava la libertà di pensiero e di stampa che, dopo la guerra, si dava, almeno in teoria, per acquisita, anche in penuria di speranze soleggiate. Allora non avremmo mai pensato che molti anni dopo avremmo dovuto difendere la libertà di stampa come per ricominciare da capo. «A conquistare la nostra primavera».
Curioso e significativo che, comunque, luci e ombre, buio e albe e perfino lampadine e corti circuiti siano convocati nell’arioso spazio delle metafore per ammonire politicamente. Propongo, quindi, una riflessione su questo quadro, Il piemontese Pellizza segnala che i suoi designati capi del corteo vanno a perorare la buona causa «presso il Signore», che non è il buon Dio che, nei cortei giusti e sacrosanti, cammina con le sue creature, con coloro che tirano la carretta amara della fatica e della penuria. Ma il padrone, quello che cambia faccia, aspetto, funzioni, procedure, egoismo «miliardario americano», per restare, esosamente, lo stesso di sempre. E la fiumana scorre, sfila, avanza alla luce del sole, di buona lena, portando i bambini e il buon diritto, la buona giustizia. E la propria Fede. Somiglia al popolo che ha detto addio al suo Pastore. Alla vigilia della Festa del Lavoro. Con le maiuscole. Aveva ragione mio padre: Sacrosanta.