Venerdì Santo 18 aprile 2025. Riflessioni estortemi dalla bella musica delle bande che suonano nella piazza «di San Gaetano» del mio paese, Bitonto. Assisto allo «spettacolo» impagabile della Processione pasquale da un balcone complice della mia commozione grazie alla cortesia di Donna Lucia Degennaro.
Il rigore culturale e la passione sociale spingono a contemplare lo spettacolo della processione, partecipandovi. Non sono spettatori: tutti «partecipano». Anche dal balcone di Donna Lucia. Riflessioni e ricordi struggenti che mi hanno convinto a ritrovare un’accorata mia confessione di 24 anni fa, sulla Gazzetta. Mi permetto di condividerla con i lettori:
«La strada statale 98 che si allontana da Bari per toccare Bitonto e gli altri grandi comuni della provincia s’affatica in una sequela di paesaggi industriali che hanno trasformato gli uliveti e i mandorleti in un’immensa periferia uggiosa e brutta.
È indistinguibile l’identità delle imprese e delle ditte commerciali che, in sciame, ostentano verso il traffico la loro presenza operosa di una laboriosità, però, invadente e disordinata. Solo dopo chilometri si dirada il panorama ferroso e imbandierato di vessilli pubblicitari per lasciare allo sguardo l’imprevista gioia di una macchia d’alberi o di un prato scosceso, rigoglioso di rottami e deiezioni dell’opulenza metropolitana. Il viaggiatore che, come me, cerca di scrutare l’affacciarsi delle stagioni, deve accontentarsi d’intuirne il trascorrere dal colore dell’erba invasiva sulle prode. Non un mandorlo in fiore. Con ansia cerco avidamente oltre i recinti e le sconnesse muraglie di metallo e cemento. Ma come, mi dico, nonostante questa inquietante e precoce primavera, m’è negato il piacere dell’avvisaglia dei peschi e dei mandorli fioriti? Mandorli e peschi che ogni Pugliese sa riconoscere come il simbolo quasi araldico della sua terra. Guardo e mi disilludo miglio dopo miglio. Dovrò elemosinare il reperto testimoniale della primavera da qualche ostinato contadino di quelli che sono assediati dall’invadenza del consumismo di plastica ferrosa, ma, per fortuna, aiutati dalle imprese onestamente interessate alla difesa della natura.
Ma ecco, arrivati alla via per Bitonto, mi richiama lo sguardo il biancore subitaneo e seminascosto di un alberetto che occhieggia tra due torrette di mattoni forati. È stento, ma testardo, l’albero caro e sembra non volerla dare vinta all’immensa bottega delle ferraglie. Darà mai mandorle? E chi le mangerà, bianche e croccanti in quel loro velluto verde tenue? Non sono domande da poco per un Pugliese. Non faccio in tempo a rispondermi sconsolato e vedo definirsi il profilo nitido del mio paese con la sua folla di chiese e campanili e giardini pensili e tetti miracolosamente sospesi nel groviglio di vicoli intrecciati.
Entro in città costeggiando le brutte superfetazioni della vecchia società elettrica che affliggono il disegno perfetto delle vecchie mura. Da un pezzo ho scongiurato l’Enel e suoi satrapi, di liberarcene, ma non è accaduto nulla. E, invece, qualcosa dovranno pur decidere prima che qualcuno, deluso e non rassegnato, organizzi una sommossa popolare che dia di piglio al piccone per demolire l’inutile obbrobrio. I tempi stringono e, accanitamente, si lavora perché il Teatro torni a vivere libero e aperto agli Italiani e non solo. Il cantiere sta lì vicino: già sembra di sentire cantare e recitare tra quelle travi, quel cemento, quei resti orgogliosi del vecchio palcoscenico, quei ballatoi impolverati. Sono venuto a visitarlo. L’emozione è grande e non m’accontento di nulla: chiedo, interrogo, attacco con le memorie, forse esagero, ma imploro comprensione. Mi accompagna Modesto Losito, l’ingegnere che sta combattendo col tempo la sua e nostra battaglia e la sta vincendo per far si che il 15 aprile del 2002 si «faccia porta» come si dice nel gergo degli attori. E già, perché il 15 aprile di troppi anni fa il Teatro «Umberto» aveva aperto le porte. Franceschino Amendolagine sa tutto e con meticolosità mi ricorda le date. Mi ricorda anche che dal 1966, durante una indimenticabile seduta del Consiglio Comunale, cominciò a rinascere questo gonfalone della città come il teatro è. In quell’assemblea, un ragazzino si mise a concionare, attirando con un comizio, la curiosità del pubblico. Ero io.
Da allora non ho mancato occasione per ricordare ai miei vecchi amici concittadini bitontini e baresi che il teatro non è solo un edifico utile, è una condizione di vita e di civiltà, è una irrinunciabile casa della comunità. Torno a Bari che è buio. Un freddo pungente è sceso in una sera tersa. Mi rassicura sull’eternità e immutabilità delle stagioni. Scruto nell’oscurità per cercare di rivedere quell’ostinato mandorlo in fiore. Sorrido. Si vede! Anche al buio, tra le brutte torri».
Questo accadde 24 anni fa. Il Teatro «Traetta», oggi, è vivo e ha festeggiato l’anniversario della sua restituzione a Bitonto con un ricordo della «Prima» di un’opera di Traetta: «il Cavaliere errante». Regia di Michele Mirabella.