Sabato 06 Settembre 2025 | 11:26

Le «case dell’arte» di noi commedianti

 
Michele Mirabella

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Michele Mirabella

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Michele Mirabella

Furono gli anni dello studio e della ricerca, degli errori di una madornale bellezza e dei successi dolcissimi

Domenica 30 Giugno 2024, 12:00

Se vogliono disprezzarsi a vicenda i praticoni della politica usano la parola «teatro» e le varianti di «teatrino» e «commedia». Intimo a tutti, politicanti e giornalisti, di astenersene. E, con un ricordo personale, tento di spiegarne la ragione. Il ricordo è dedicato a Vito Leccese. Buon lavoro di cuore, signor Sindaco!

Quando avvertii la mia famiglia che intendevo fare il mestiere del teatro calò un sipario di silenzio imbarazzato. Un buon segno: se non altro, non si sarebbe data battaglia, pensai. Era, in realtà, la forma di rispetto che si porta agli inconsapevoli segnati da Dio che meritano la comprensione degli affini e famigliari. Insomma, pensavano, se ci è capitata questa disgrazia, l’affronteremo con serenità. Dissuadermi, lo compresero subito, sarebbe stato inutile, contrastarmi pericoloso, entusiasmarsi inopportuno. Fui assecondato, come si fa con i mattacchioni. Ma non per disprezzo per le Muse, Dio ne guardi! In casa mia il teatro era amato e seguito. S’ascoltavano le commedie e i drammi alla radio con passione e diligenza.

Mia madre ci riuniva intorno all’apparecchio, in tinello, come in una minuscola platea che, silenziosa, s’immergeva nei velluti e nelle quinte dell’etere per immaginare la scena e gli attori. I miei affittavano il palco al Piccinni per la stagione di prosa e rivista e al Petruzzelli per la lirica. Insomma in casa mia gli illetterati renitenti all’arte avevano vita grama. Gli è che, però, non v’era chi, tra le mura domestiche non intravedesse le minacce connesse alla vocazione istrionica. Mia madre già m’immaginò trascinarmi tra i saltimbanchi ad elemosinare una maschera e un tozzo di pane e, quando studiavo i versi di Quasimodo dedicati alla madre (versi che ora non posso più leggere, pena uno stranguglione di pianto), m’immaginavo con quel «mantello corto e quel pugno di versi in tasca» abbandonare nottetempo non le «foci dell’Imera», ma il terzo piano dell’Ateneo di Bari dov’era la mia splendida Facoltà di Lettere.

E fu proprio quell’Ateneo a scongiurare le ansie famigliari per il rischio del vagabondaggio appresso a traballanti carri di Tespi: lì, tra quella gente studiosa di cercare alternative culturali, covai con un manipolo di «sconsiderati» la vocazione teatrale e questa fiorì alla faccia delle accidie provinciali. Era il Cut, il Centro Universitario Teatrale di Bari che Egidio Pani aveva inventato in un fatidico scantinato della Casa dello Studente. Fu la stagione più bella non solo della mia vita, ma anche di quella di tanti amici che, come me, avevano affrontato deschi domestici iracondi per riaffermare il diritto minimo e sacrosanto di scalare il Parnaso, anche se si ergeva in una ex barberia di via Bonazzi. E non nell’ambìto e amato Teatro Comunale Piccinni. Furono gli anni dello studio e della ricerca, dei successi e degli errori, errori di una madornale bellezza e successi dolcissimi. Questi ci legittimarono artisti degni del Teatro Comunale Piccinni. Successi che qualcuno non ci ha perdonato. Come potrei non parlare di questa casa dell’arte che è il mio, il nostro Teatro?

Molti discettano del Piccinni e ne straparlano. Alcuni già si sono messi in fila per candidarsi a dirigerne la vita. (Circa le opere è silenzio). Entrambi: vita e opere di un teatro, meritano cultura, esperienza, mestiere e talento a dirigerlo. Altrimenti la parola teatro resta nella melmosa chiacchiera dei politici.

In pochi ne conoscono la storia, tra questi Pasquale Bellini, studioso, critico teatrale e compagno di lavoro non solo nel CUT, generoso e geniale. Bellini e quelli che si sono presi almeno la briga di scrutinare qualche notizia nella targa sistemata a fianco del portone che immette nel cortile per il quale si accede sia nel teatro che negli uffici comunali. La limitrofa funzionalità potrebbe avallare una condizione di sede di gestione della politica municipale e della laica vita culturale di un teatro al servizio della terra nostra: Città e Regione con le pertinenze indispensabili di Scuola e Università. Altro che dare un teatro in appalto ad una gestione sbadigliante di pigrizie amministrative con un cartellone privo di un vero impegno di impresa culturale di specificità artistica: teatrale! Se un teatro ospita solo girovaghi e non produce con proprie iniziative è una locanda, una tappa di tournée per le Compagnie di giro.

La legge autorizza e, addirittura, promuove la istituzione, nelle regioni di «Teatri Nazionali», oltre i «Teatri di ricerca di rilevanza culturale». Si tratta di «fare teatro». Bari vanta cinque teatri: il più grande, il Petruzzelli, sta lì a programmare signore stagioni, ma, anche, per produrre, per fortuna. L’ex teatro Margherita è stato decapitato della torre scenica non so da quale squinternato architetto e, quindi, non può essere utilizzato come teatro; il Teatro Santalucia, magnificamente restaurato, non agisce: sta lì, taciturno, quasi cieco: deserto. Il prezioso Teatro Lucciola (una volta si chiamava così) oggi è detto «AncheCinema» Aggiungerei «Di radoTeatro».

Signor Sindaco, mi permetta di congratularmi per la vittoria elettorale e di chiederle udienza: vorrei suggerirle un’idea. Mi dia pure del commediante, non è un insulto.

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