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Don Ciccio il Dottore e le sue «capatine»

 
Michele Mirabella

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Michele Mirabella

Don Ciccio il Dottore e le sue «capatine»

Il medico arrivava puntuale, salutava, si sbarazzava del pastrano e barattava quattro chiacchiere con la famiglie

Domenica 20 Novembre 2022, 11:35

Certe farneticazioni sulla pandemia ancora in corso mi hanno spinto a rileggere qualche pagina del mio ultimo libro onde confermare la pace abituale con i medici, la stragrande maggioranza, che amo e rispetto. Una minoranza infima, nel senso della qualità oltre che della quantità, non la amo e non la stimo per le farneticazioni di cui dicevo in testa a questo scritto domenicale dedicato ai nomi di cose e persone, delle arti e delle mansioni, delle virtù e degli immancabili vizi. Dedico la citazione ai medici che si battono per difendere noi e la scienza.

«Da piccolo, non avevo paura del medico, non perché fossi un bambino diverso, ma perché era un medico diverso. In verità, in famiglia, lo chiamavamo «Il Dottore»; o, più rispettosamente, Don Ciccio.

A me pareva adatto il «Don» spagnolesco per quel signore burbero e pacioso, altero e gentile, sapiente e severo, ma rassicurante con i pazienti durante le visite cui era chiamato nel venerando palazzetto dove nacqui e abitai per pochi, indimenticabili anni d’una infanzia fuggitiva. Don Ciccio non diceva visite, diceva «capatine»: «Faccio una capatina dopo pranzo», garantiva a chi ne invocava l’intervento, raggiungendolo nella sua casa austera piena di libri e quadri che incutevano reverenza e curiosità invitando anche alla consapevolezza che in quelle spaziose stanze sempre in penombra abitasse il sapere. Sapere generoso.

E il Dottore arrivava puntuale, salutava, si sbarazzava del pastrano, barattava quattro chiacchiere con la famiglia, si informava su che cosa avessimo mangiato a pranzo e commentava il menu, dava notizie della sua famiglia su richiesta delle zie e, poi, incidentalmente, domandava: «Allora, che cosa è successo?», come se il malessere, la malattia fossero compresi nel conto negli accadimenti naturali della vita quotidiana che alterna noie, dolori a gioie, quiete e piaceri che succedono, appunto. Usava un tono colloquiale e ascoltava paziente, interrompendo con domande buttate lì, con interesse, ma senza ansia, domande tecniche, anamnestiche, cliniche, insomma, ma che sembravano fatte per cortesia, per affabilità, giusto per far conversazione.

Sembrava parlare del tempo o della stagione calda che si protraeva o del raccolto delle olive. Poi, d’improvviso, come raggiunto da un pensiero o per ricordarsi di un impegno improvviso, interrompeva il profluvio di lai e querimonie degli astanti che dicevano e spiegavano e allarmavano e bofonchiava: «Diamo un’occhiata», e si dirigeva verso la stanza da letto.
Don Ciccio conosceva a menadito le case dei suoi pazienti. La stanza era rassettata: era stato tirato fuori un copriletto buono, ricamato che profumava di lavanda, il gatto era stato allontanato sul terrazzo, sulla sedia c’era un candido asciugamano del corredo di qualche cugina appena sposata (ve n’erano sempre) e sul comò era stata messa una bacinella d’acqua tiepida. Iniziava la visita.

La liturgia era quella accurata della semeiotica tradizionale. Don Ciccio toccava, palpava, auscultava, scrutava, accarezzava, premeva sollecitava, picchiettava. Tutto avveniva in un silenzio perfetto, al punto che si poteva sentire il ronzio di qualche mosca sopravvissuta alla caccia preparatoria consumatasi in attesa della visita ad opera della cameriera con il meticoloso arieggiare ritmato delle persiane alternato allo sventolio cadenzato di un canovaccio. Solo la pendola del salotto, incurante, dava il suo periodico arpeggiare. Durante la esplorazione del paziente nessuno fiatava. Le zie ammiccavano tra di loro. La mamma dell’ammalato pregava mentalmente gironzolando con lo sguardo dalle laboriose mani del medico alle immagini sacre che affollavano un altarino posto sul comodino con le fotografie ovali delle «buonanime» che neanche Don Ciccio era riuscito a salvare.

Io, strappato il consenso a seguire la cerimonia, ricordo l’espressione di Don Ciccio che alternava curiosità, lievi stupori, sfumati corrucci, sospiri. Poi concludeva «Rivestiti». Don Ciccio dava a tutti del tu conservando il nomignolo infantile di quando li aveva visitati per la prima volta. Seguiva un momento di pausa, poi si rivolgeva alla mamma del caso e sentenziava la diagnosi prodigandosi in traduzioni popolari delle comuni patologie in cui si imbatteva. Ringrazio Dio di non aver mai ascoltato da Don Ciccio una diagnosi drammatica, ma sono certo che avrebbe trovato i modi più gentili e generosi della più squisita umanità.

A quel punto alzava leggermente le belle mani col dorso verso l’esterno e questo significava che voleva lavarsi.
«Mani da chirurgo» sussurrava, immancabilmente Zia Rosina e voleva dire mani da miracoli. Don Ciccio lo sapeva e camuffava dietro il suo brontolio di ritrosia una minuscola vanità. Ci si accomodava in salotto: il rituale prevedeva un caffè. Il dottore si sedeva al tavolo da pranzo, poi prescriveva il da farsi e cominciava: «Dite a Don Luigi». Era il farmacista. Un altro Don meritato.

Scritta la ricetta, sorbiva il caffè, ringraziava e, alle premure di quelli che, abbassando la voce, osavano un «Per il disturbo, Don Ciccio?», opponeva il conclusivo «Pensate alla salute». Ricordo che, quando sentì alla radio la notizia che era stato prodotto il vaccino antipolio, si commosse e abbracciò mio nonno. Per fraternità. E gli spiegò quanto fosse importante un vaccino. Questo era Don Ciccio il «Dottore».

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