Il presidente del Consiglio s'è recato al Quirinale e ha rassegnato le dimissioni. Aperta formalmente la crisi di governo entra in campo il presidente della Repubblica, nel ruolo costituzionale di garante del rapporto di fiducia che deve esistere fra l'esecutivo e le Camere.
La prassi prevede che il capo dello Stato, udite le comunicazioni del presidente del Consiglio, prenda atto della richiesta di dimissioni e si riservi di decidere in merito, invitando il governo a restare in carica per il disbrigo degli affari correnti. Contestualmente o in un secondo momento, il capo dello Stato decide di avviare le consultazioni, convocando al Quirinale i presidenti delle Camere, i senatori a vita, gli ex presidenti della Repubblica e le forze politiche rappresentate in Parlamento.
Al termine della consultazioni, che si svolgono nello Studio alla Vetrata, il presidente della Repubblica si può concedere una pausa di riflessione, più o meno lunga. Deve stabilire, innanzi tutto, se esistono le condizioni per respingere le dimissioni, per rimandare il presidente dimissionario davanti alle Camere per un nuovo voto di fiducia, o per affidargli l'incarico di dare vita a un nuovo governo. Anche nel caso che il presidente si orienti ad affidarlo ad un'altra personalità, l'incarico può essere pieno o delimitato, teso cioè a verificare alcune condizioni.
Il presidente dimissionario continua a guidare l'esecutivo per l'ordinaria amministrazione finchè il presidente incaricato - che di solito accetta con riserva - non accetta l'incarico e prova a formare un esecutivo che abbia il sostegno di una maggioranza nei due rami del Parlamento.
Di fronte a crisi come questa che riguarda l'esecutivo guidato da Prodi, in una situazione in cui i due schieramenti parlamentari quasi si equivalgono sul piano numerico, e di fronte al fatto che la caduta del governo è stata causata dalla dissociazione dalla maggioranza di una sua componente, l'Udeur, il problema di individuare una maggioranza politica autosufficiente, disposta a sostenere un nuovo esecutivo, è di difficile soluzione. È la questione essenziale.
Se la maggioranza entrata in crisi non è in grado di ricostituirsi, e non ne esiste una alternativa, il presidente della Repubblica verifica se esistono le condizioni per mettere in campo una maggioranza disposta a sostenere un esecutivo incaricato di realizzare alcuni obiettivi delimitati e ben definiti. Ad esempio, l'approvazione di quelle riforme istituzionali e della revisione della legge elettorale che in più occasioni ha indicato come atti necessari prima di tornare alle urne. Si prende così in considerazione un tipo di governo che è definito tecnico, istituzionale, elettorale, del presidente, a secondo degli obiettivi, della composizione, e di chi lo guida. Un esecutivo-ponte di solito incaricato di portare il governo a elezioni anticipate in tempi ravvicinati.
Se anche il governo-ponte si rivela impraticabile, il capo dello Stato deve prendere in esame lo scioglimento delle Camere in tempi brevi: esistono ancora i tempi tecnici per votare in primavera. Di solito, in questi casi, resta in carica il governo dimissionario o se ne forma uno ad hoc.
Napolitano è ora chiamato a dipanare questa intricata matassa. È la terza volta, da quando è al Quirinale, che si a cimenta con questi compiti. La prima volta fu subito dopo le elezioni del 2006, quando affidò l'incarico a Prodi; la seconda undici mesi fa, a febbraio del 2007, dopo che il governo Prodi era inciampato in due esiti negativi durante le votazioni al Senato (ma non erano voti di fiducia). In queste due occasioni, Napolitano ha agito con grande celerità. L'ultima volta ha fatto le consultazioni a tappe forzate, in due giorni, e ha rinviare Prodi alle Camere tre giorni dopo le dimissioni.