Da quando la Fiat aprì lo stabilimento di Melfi, mi capita di imbastire con me stesso un gioco numerico. Su strada conto le auto prodotte da Fiat, Alfa, Lancia e quelle straniere. Una gara in cui numericamente vincono sempre le straniere.
Sta di fatto però che a San Nicola di Melfi appaiono ora i primi licenziamenti. Si tratta di operai di casa nostra. E mi chiedo anche cosa sarà di quelle aziende e di quelle terre.
La mia famiglia ha avuto molto a che fare con gli Agnelli. Cominciò mio zio Lorenzo, emigrando a Torino negli anni Sessanta. Lavorava nell’indotto, in una fabbrica di fanali di Borgaro. Gli subentrarono i figli, Rosa, Raffaele e Vincenzo. Per una serie di vicissitudini Vincenzo si trovò a capo della stessa azienda, nel momento in cui il proprietario scomparve. Si fece coraggio e prese in mano la ditta, che arrivò a contare oltre un centinaio di operai. E quando nei primi anni Novanta si aprì lo stabilimento Sata di Melfi, Vincenzo aprì una filiale sull’ Ofanto, associandosi ai cugini, Vincenzo Di Miscio e Maria Nigro.
Tocco quei territori ogni volta che rientro in autostrada da Candela. E ricordo gli anni di gioventù quando mio padre mi mostrava una fotografia in cui lui stringe una roncola e capeggia una cinquantina di contadini durante l’occupazione delle terre dei Doria. Mio padre appare giovane e sorridente, è tornato dalla prigionia in India e in Inghilterra e ha da poco sposato mia madre, Teresina del Bambino Gesù. Precede questa foto la stagione della Riforma Fondiaria, la venuta in Lucania di De Gasperi e di Togliatti e la legge che prevede la quotizzazione dei latifondi. A mio padre toccò una quota nell’isoletta di Camarda che lui provvide a coltivare prima a grano e poi a barbabietole da zucchero. Ricordo i camion al centro del terreno e gli scavatori che cavavano i grossi tuberi. Dietro di loro c’era una fila di scollettatori che tagliavano col falcetto le foglie e lanciavano le barbabietole sul camion. Tutt’intorno i campi si arrampicavano alle colline e quando non riuscivo a sopportare la calura me ne salivo alla masseria Sena, da dove appariva la lunga costa scavata dall’alveo dell’Ofanto. Era una posizione di vedetta suggestiva, la stessa che aveva goduto molti secoli prima Quinto Orazio Flacco, prima di partire definitivamente per Roma. I camion carichi partivano in direzione di Lavello dove era sorto uno zuccherificio dell’Eridania. Queste colture non durarono molto, perché arrivò dalla Campania un nuovo vento. Erano infatti fiorite in Irpinia le industrie della salsa e occorrevano pomodori dalle nostre campagne. La conversione dei campi portò un improvviso benessere. Ma non tutti i contadini assegnatari di poderi e di quote si assoggettavano alle nuove colture. Più del vento irpino potè quello di Lombardia e di Piemonte. A migliaia i contadini vendettero le terre e fuggirono verso Nord e uomini come mio padre e i miei zii, Paolino, Luigi, Peppino, approfittarono per acquistare a prezzi contenuti quelle terre. Si rifondarono piccoli latifondi e molte aggregazioni di poderi. I pomodori arrossavano le terre intorno al fiume, causando spesso per via della violenza dell’atmosfera veri e propri disastri. Quante volte mio zio Paolino si vide distrutto il raccolto dalla gradine o dai torrenti. L’annuncio della Fiat a San Nicola, trent’anni fa, fu un evento epocale. Dove c’era lavoro per qualche centinaio di contadini e di braccianti, dove le erpici si sostituivano alle mietitrebbie arrivò un esercito di metalmeccanici. Cinquemila, quindicimila, ventimila operai, dipendenti della Sata e delle aziende dell’indotto. L’Imu e la Tari versati dalla Fiat al Comune di Melfi permise il miglioramento di scuole, di strade, la promozione culturale. I centri di Candela, Lavello, Melfi, Rapolla, Rionero, Sant’Agata, Ascoli, Canosa si trasformarono immediatamente da borghi moribondi e condannati allo spopolamento in paesi vivaci e baciati da inatteso incremento demografico. Apparve la cultura della pizzeria, dei pub e della rosticceria, anche se con difficoltà si provò a convincere gli operai pendolari dell’alta Calabria, della Lucania meridionale, della Puglia adriatica e della Campania Tirrenica a cambiare residenza. La Fiat-Sata fu una boccata di ossigeno per le tre regioni meridionali. E nel frattempo alcune vetture, come la Renegade, la Punto, la Cinquecento, portavano lo stabilimento al centro del mercato mondiale. Melfi e i suoi operai venivano additati come una sezione staccata della grande industria del Giappone. Questo boom economico è durato trent’anni, anche se ancora non si è pensato a dedicare una piazza o una strada a Marchionne e all’Avvocato.
L’assenza di una mente sta producendo un disastro improvviso, le auto non si vendono più come prima e sui cancelli dell’azienda appaiono le prime minacce di licenziamento, contrabbandate come prepensionamenti. Sicuramente la nascita di Stellantis ha cambiato il volto delle cose, a molti operai è stato chiesto di accettare un trasferimento in Francia e di imparare il francese. Per aiutare l’azienda io ho comprato una Punto e una Renegade, anche se mi rendo conto che una rondine non fa primavera. Ma è la speranza che la valle dell’Ofanto non diventi a breve un cimitero o un museo di archeologia industriale, costringendo l’area compresa tra Foggia, Cerignola, Matera e Potenza a trasformarsi ancora una volta in luoghi di fuga e a capitali di spopolamento e di emorragie, come è stato fino alla chiusa del Novecento.