Ci sono spioni e spioni. L’inchiesta della Direzione Distrettuale Antimafia di Milano con i suoi 60 indagati e la gravità impressionante delle presunte condotte illecite da essi compiuti deve allarmare tutti noi, più di quanto avvenuto con il caso-Striano, il luogotenente guardone sul quale ha acceso da tempo i riflettori la Procura di Perugia o con la vicenda Coviello, il bancario barese curioso. Non solo e non soltanto perché non si tratta di una indagine territorialmente localizzabile unicamente, all’ombra della Madonnina, vista l’attiva e inquietante presenza di pugliesi e lucani, ma per i mezzi usati e usabili.
Stando a quanto emerso sinora e leggendo gli atti processuali dei quali c’è stata discovery con la notifica agli indagati destinatari di misure cautelari, non ci sarebbe stata “solo” una attività di spionaggio-dossieraggio compiuta accedendo illecitamente alle banche dati delle forze di polizia – come sarebbe avvenuto ad esempio negli uffici del centro Dia di Lecce – ma anche un lavoro di intercettazione compiuto tramite i sofisticati trojan, inoculati nei cellulari dei soggetti ai quali carpire segreti e fatti assolutamente privati.
Tanto in passato e ancora più di recente si è dibattuto sull’utilizzo massiccio e improprio delle intercettazioni telefoniche e ambientali da parte della magistratura quali inflazionati strumenti di ricerca delle prove, a volte per reati di natura diversa rispetto a quelli ipotizzati e posti a fondamento dell’avviata attività investigativa (la cosiddetta pesca a strascico, ti intercetto tanto qualcosa uscirà, malgrado la tassatività delle norme) ma almeno in questi casi c’è una procedura chiara, precisa, con delle regole da seguire. La polizia giudiziaria fa le sue proposte rispetto all’attività tecnica da compiere per individuare gli autori di uno o più reati, il pubblico ministero la vaglia e fa richiesta al giudice per le indagini preliminari che a sua volta autorizza le intercettazioni di 15 giorni in 15 giorni.
Nel caso delle società di investigazioni smantellate dalla Dda di Milano, l’attività di intercettazione era potenzialmente la stessa dell’autorità giudiziaria ma compiuta completamente al di fuori del recinto delle regole.
Pagando era così possibile far installare un trojan nel cellulare della ragazza che si sta corteggiando per capire se c’erano altri pretendenti al trono oppure inoculare lo stesso captatore ambientale sullo smartphone dell’avversario politico o su quello del rivale in affari per carpire informazioni importanti o costruire dossier da utilizzare al momento più opportuno.
Un quadro che cambia drasticamente le cose, almeno per quanto conosciute finora, e che richiede una mobilitazione democratica contro quello che appare un vero e proprio attacco alla democrazia e alla libertà di impresa, attacco in grado di condizionare gli esiti delle campagne elettorali e della libera concorrenza, sollecitando una risposta ferma e compatta della politica, ben al di là dei timidi commenti e dei rumorosi silenzi registrati subito dopo l’operazione della Dda di Milano.
Non c’è in ballo la reputazione di questo o di quello ma la privacy di una intera nazione.