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Nel voto per Meloni l’Europa in crisi d’identità e la paura del futuro

 
Oscar Iarussi

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Oscar Iarussi

Nel voto per Meloni l’Europa in crisi d’identità e la paura del futuro

Giorgia Meloni è la vincitrice delle elezioni parlamentari

Sono meno intellegibili e andranno scandagliate le tendenze carsiche che hanno propiziato tale risultato. Sullo sfondo c’è l’Europa in crisi di identità, le cui spinte centrifughe rispetto all’Unione sono all’opera da tempo

Martedì 27 Settembre 2022, 15:10

19:33

Giorgia Meloni, una vittoria meritata. Enrico Letta, una sconfitta annunciata. Giuseppe Conte, un’abile rimonta. Carlo Calenda, un calcolo errato. Matteo Salvini, un traguardo mancato. Silvio Berlusconi, il sigillo di un’epoca. Il voto di domenica consegna indicazioni chiare che depongono per l’incarico di governo alla leader di Fratelli d’Italia, di gran lunga primo partito nel responso.

Sono meno intellegibili e andranno scandagliate le tendenze carsiche che hanno propiziato tale risultato. Sullo sfondo c’è l’Europa in crisi di identità, le cui spinte centrifughe rispetto all’Unione sono all’opera da tempo, un’Europa priva di fascino persino agli occhi dei giovani abbienti che la percorrono in lungo e in largo, volando per vacanze o studio da Barcellona a Varsavia, da Lisbona a Vilnius. Del resto, la globalizzazione patisce e rivela le sue contraddizioni da almeno vent’anni, la povertà è in aumento ovunque insieme all’implacabile venir meno dell’occupazione, erosa con un ritmo impressionante dalle nuove tecnologie digitali e frammentata nella costellazione degli impieghi precari. Il ciclo novecentesco del patto «socialdemocratico» fra capitale e lavoro è finito, come sancisce la recente affermazione dell’ultradestra di Jimmie Akesson in Svezia, che fu a lungo il paese-modello dello Stato sociale col tipico compromesso, appunto, tra liberismo economico ed elementi di socialismo nella vita pubblica.

Di fronte a quest’orizzonte, reso più fosco dal Covid e poi dalla guerra mossa da Putin contro l’Ucraina, sono andate crescendo la paura, la solitudine, la miseria di larghe fasce di cittadini, nonché un’incertezza del fare impresa nei termini classici dell’investimento, del coraggio, dell’innovazione, che non bastano più a garantire la scommessa verso il successo. Di conseguenza si è rinvigorita la tentazione nazionalista o populista a pensare a sé stessi, a chiudersi nel recinto di casa propria, al riparo dai venti della storia e dallo straniero. Negli anni scorsi, il carisma di Salvini ha intercettato tale isolazionismo venato talora di xenofobia, mentre la «sua» Lega diventava partito di governo stabile, duraturo, strutturato nel Nord del Paese, a cominciare dal Veneto di Luca Zaia. Ma stavolta Giorgia Meloni è stata lì e altrove infinitamente più credibile, in virtù di una «lunga marcia» nelle istituzioni e nella società, sempre all’opposizione, da ultimo unica forza politica esterna al governo Draghi. E anche grazie all’empatia personale suscitata nell’opinione pubblica (speculare agli attacchi che le venivano rivolti). Sicché un elettore su quattro le ha affidato la speranza di una sorta di riscossa italiana o di una risposta ai timori di cui sopra, in un quadro a dir poco problematico, con l’autunno freddo delle bollette alle porte.

E la sinistra? Intanto la «ditta» del Pd, per dirla con Bersani, presenta un’identità incerta, bicefala, erede irrisolta della tradizione comunista e di quella democristiana da cui proviene il segretario dem Enrico Letta. Poi, semplicemente, il Pd non ha «interpretato» la sinistra e ha sottovalutato la questione del lavoro e dell’impoverimento, spendendosi piuttosto nella pur importantissima difesa dei diritti individuali e civili, finanche linguistici (la neutralità di genere). D’altro canto, il Pd si è trincerato tout court nell’europeismo in vertiginosa perdita di quota e ha puntato sulla credibilità e il lungo corso della classe di governo nazionale e locale (i ministri, i sindaci), tuttavia percepita spesso come establishment e conservazione del potere. Intanto alla sinistra del Partito democratico, per uno dei ricorrenti paradossi nel Paese della commedia dell’arte, si apriva uno spazio enorme per altri ruoli. Qui Giuseppe Conte - due volte presidente del Consiglio, alleato prima della Lega e poi del Pd - ha riposizionato il Movimento 5 Stelle con una velocità e una perizia impressionanti. Impugnando il vessillo del reddito di cittadinanza, il foggiano Conte si è erto ad «avvocato difensore del popolo» soprattutto nel Mezzogiorno, dove oggi è uno dei protagonisti politici più suffragati al pari del leccese Raffaele Fitto, primatista per Fratelli d’Italia.

Carlo Calenda e Matteo Renzi hanno convinto le élite produttive e molti giovani, con un exploit milanese della neo-parlamentare trentenne Giulia Pastorella. Ma non ha sfondato la suggestione di un Terzo polo nel segno del Draghi bis, oltretutto smentito dal premier uscente. Anche perché Forza Italia – il cui elettorato Calenda sperava di conquistare – ha retto grazie all’esperienza del ceto politico nei territori e all’appeal di Berlusconi non ancora consunto.

Possiamo comprendere le reazioni timorose che vengono dall’estero, visto che l’Italia è pur sempre il Paese dove giusto un secolo fa nacque il fascismo, ma è sbagliato agitare toni apocalittici contro il sovranismo o il nazionalismo di cui Giorgia Meloni in campagna elettorale ha incarnato sia il volto ragionevole sia quello battagliero. Bisogna avere fiducia nella nostra democrazia, ancorché ferita dal boom dell’astensione, e rispetto degli elettori che hanno consegnato la vittoria a Meloni e ne valuteranno i risultati. Ora tocca a lei dar corpo alla «responsabilità» del governare evocata già nella notte del trionfo, tenendo insieme i furori della ragazza della fiamma e una cultura politica di destra all’altezza delle domande e dei bisogni confluiti nel consenso ottenuto. E tocca alle opposizioni provare a offrire un’alternativa credibile rispetto ai problemi sopra accennati, un’alternativa che nelle urne con ogni evidenza non c’era.

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