È una full immersion nel mondo interiore di Ornella Vanoni il libro/testamento scritto in collaborazione con Pacifico Vincente o perdente (La nave di Teseo). Un libro-confessione in cui affiorano i ricordi, i rimpianti e le debolezze di una donna che ha segnato profondamente il panorama musicale italiano negli anni ’60/’80 con la sua voce particolare, dal timbro insolito.
Pochi sanno che la Vanoni sostenne un provino per entrare al Piccolo di Milano iniziando così la sua carriera artistica come attrice teatrale. L’incontro con Giorgio Strehler fu determinante per la scoperta di se stessa e delle sue potenzialità; la cantante lo definisce una sorta di “apprendistato”. E la Vanoni ci rivela un ritratto del grandissimo regista teatrale inedito: un uomo terrorizzato dall’insuccesso, che si chiudeva in camerino prima del responso del pubblico per apprendere solo da lei l’esito dello spettacolo. Ornella ne parla con tenerezza come se parlasse di un bambino, ricordando i doni che lui le faceva, innamoratissimo: un certo cappottino azzurro, un filo di perle “striminzito”, il viaggio a Parigi a un capodanno con alcuni incredibili ricordi di lei che va dal parrucchiere e lui che balla sul posto in attesa del taxi per resistere al freddo.
La dichiarazione d’amore di Giorgio fu per lei l’inizio della scoperta di se stessa: Ornella finalmente diventa compiutamente Ornella, per scelta, presa di posizione, consapevolezza. Finalmente diventa donna anche se il prezzo da pagare è altissimo: lo scontro coi genitori che non approvavano quella relazione con un uomo più grande di lei, sposato. La Vanoni ne parla come se quell’amore non la avesse mai abbandonata; il suo debito di riconoscenza verso Strehler è immenso sebbene lei ammetta che l’uomo che davvero ha amato profondamente è stato Gino Paoli.
Stranamente come per una sorta di senile pudore il cantautore amatissimo da Ornella trova pochissimo spazio nel libro; appena accennato, resta come in un limbo sospeso e di lui rimane solo l’eco di quella grandissima canzone a lei dedicata, Senza fine, con quelle mani grandi, senza fine, che sono appunto le mani di Ornella. E poi il ricordo del padre, amato anche lui profondamente, con quella sua fragilità infantile che Ornella ritrova in se stessa, quella sua malinconia che è il preludio della depressione, la “fossa delle Marianne” come la chiama lei.
La depressione l’ha posseduta per tanto tempo, con quelle notti insonni in cui avrebbe fatto qualunque cosa per non pensare, con quel buio nell’anima che le impediva persino di apparire in pubblico perché il pubblico - lei dice - si accorge di questa “maledizione” e prende le distanze. E poi le case abitate da lei, alcune accoglienti, altre respingenti come quella di largo Treves a Milano che la terrorizzava ma che poi divenne per lei importante tanto che persino dopo averla venduta ogni tanto ci ripassava guardandola con struggente nostalgia. Ricorda tanti volti, la Vanoni, e sono tutti come “lampadine nella nebbia”: Lucio Dalla, Enzo Jannacci, Giorgio Gaber, Hugo Pratt - quasi un amore mancato -, Mia Martini, Sergio Bardotti, il suo produttore, che la salvò dal corteggiamento di Toquinho durante la realizzazione del “disco con i brasiliani” come lo chiama lei.
Nel paragrafo dedicato alle sue debolezze Ornella parla del suo rapporto con il cibo, la passione per la focaccia ligure e per lo Spritz, per la mortadella e il Brie magari con una baguette, la sua fame di cachi, sempre divorati con voracità; il piacere della tavola le è venuto in soccorso molte volte stemperando la sua malinconia. Ma il cruccio più grande resta suo figlio Cristiano, un figlio mai veramente conosciuto, di cui lei ha perso la parte più bella, l’infanzia, avendolo affidato alle cure di sua madre e suo padre durante le sue tournée, una colpa che Cristiano non le ha mai perdonato neppure dopo aver ricostruito faticosamente il loro rapporto a distanza di anni: perché l’abbandono i bambini non lo perdonano e lo portano sempre dolorosamente con sé, come una seconda pelle.
Ricorda che quando portava Cristiano ai giardinetti, nelle pause dei suoi tour, il bambino inspiegabilmente additava cose e persone esclamando “Ochino!” Ma lei non comprendeva quel linguaggio infantile che si apprende solo con la frequentazione quotidiana, il linguaggio dell’amore materno che resta chiuso per lei, inaccessibile, misterioso, non decodificabile e per questo causa di frustrazione e sofferenza. Quando non capisci tuo figlio, ti senti madre a metà. Ornella riconosce di essere stata “vincente” in tante cose della sua vita ma anche “perdente” per ciò che non ha potuto vivere fino in fondo, come la sua relazione con il figlio. In fondo siamo tutti un po’ vincenti e un po’ perdenti. E sembra di sentire le parole della sua canzone «È uno di quei giorni in cui rivedo tutta la mia vita, bilancio che non ho quadrato mai/ posso dire di ogni cosa che ho fatto a modo mio ma con che risultati non saprei». La solita grande, immensa Ornella.
















