Tutto comincia con il desiderio di un giovane di ottenere un diploma. Nulla di strano, se non fosse che siamo nel 1929 e a voler frequentare la Regia Scuola Mineraria è il nipote del sovrano etiope, il Negus Hailé Sellassié. Fin qui i fatti corrispondono al vero: in quegli anni il principe abissino soggiornò a Caltanissetta, dove ottenne il diploma di perito minerario nel 1932. Poi tornò in patria, dilapidò il suo patrimonio per un’affascinante signora francese e cadde in miseria in seguito all’invasione italiana. Da questo episodio, Camilleri trae lo spunto per un brillante affresco del tempo: Il nipote di Negus, oggi riedito da Sellerio con un’introduzione di Giulia Caminito in una collana dedicata ai cento anni dello scrittore.
Il romanzo è stato pubblicato per la prima volta nel 2010, quando ha condiviso per varie settimane le classifiche con Acciaio di Silvia Avallone e La solitudine dei numeri primi di Paolo Giordano. Pochi mesi dopo, le pagine dei giornali sarebbero state invase dalla storia della presunta nipote di un altro pezzo grosso africano, Mubarak. Quando scrive il romanzo, Camilleri non poteva sapere niente di Ruby, eppure questa coincidenza la dice lunga sulla sua capacità di osservare un mondo fatto di menzogne, ipocrisie, sesso, soldi che non bastano mai. Un mondo di cui non c’è niente da ridere, e che pure risulta esilarante. Vigàta, paesino immaginario della Sicilia ben noto per le avventure del commissario Montalbano, dove anche questa vicenda si svolge, è infatti un mondo in miniatura che ha molto in comune con il nostro e che viene messo in subbuglio dall’imminente arrivo del principe.
Il direttore della scuola, un “sommo cretino”, è preoccupato dall’arrivo del nobile abissino “in mezzo a una scolaresca di ragazzi bianchi animati da splendido e indefesso fervore fascista”. Si premura allora di interpellare i genitori degli altri studenti: uno, convinto della purezza della razza, si dice determinato a trasferire il figlio in un’altra scuola; un altro asserisce di non avere rapporti con il figlio, tanto che non saprebbe nemmeno riconoscerlo per strada. Di lì a poco, questo universo così vario soccomberà integralmente dinanzi a Grhane Sollassié Mbssa, straordinario rubacuori al pari, se non di più, della famosa Ruby.
Nel Manuale di scrittura creativa di Roberto Cotroneo (Castelvecchi, 2008), Camilleri afferma: “Come si costruisce il personaggio di un romanzo? [...] Prima di tutto, sentendolo parlare, vale a dire scrivendo su di un foglio le parole che secondo me usa di più, alcune sue frasi che possono anche non avere alcuna attinenza col romanzo, gli intercalari, le pause. [...] Insomma, desumo tutto dalle sue parole”. Fatto sta che il fantomatico nipote è il grande protagonista in contumacia e che, a dire il vero, non lo sentiamo mai prendere la parola. Il bello del romanzo sta proprio nelle reazioni ai suoi “giganteschi casini” di cui apprendiamo dalle lettere tra le autorità o dalle chiacchiere di paese. C’è chi cede “all’importanza del picciotto” in ragione di un ipotetico disegno politico ordito direttamente da Mussolini, il quale spera che il giovane mandi una lettera al re tessendo le lodi dell’accoglienza italiana (bisogna stare attenti: da uno sgarbo può nascere un incidente diplomatico e si deve chiudere un occhio anche sulla religione, pazienza per i Patti Lateranensi). E poi c’è chi crolla davanti al fascino irresistibile del tombeur de femmes et d’hommes che ha spesso e volentieri bisogno di sfogare la sua gioventù, diciamo così. È sulle parole degli uni e degli altri che si costruisce il romanzo e questo fa capire come i veri protagonisti siano i cittadini di Vigàta, i commissari, i questori e tutti quelli che fronteggiano il ciclone Grhane.
Nel 1999, sul Corriere della Sera, il titolo di una delle (poche) stroncature allo scrittore riportava: “Caro Camilleri, prenda esempio da Simenon”. A scrivere il pezzo era Giovanni Raboni. L’invito non rimase inatteso: il legame tra Camilleri e Simenon è evidente. Nella produzione dello scrittore belga si riconoscono due filoni, quello dei gialli e quello dei cosiddetti romanzi duri, definiti tali per i temi importanti o per la profondità dell’analisi sociale o psicologica. Camilleri, nei suoi romanzi duri, trova la propria cifra stilistica nell’ironia, che diventa lo strumento per descrivere quello che nella postfazione al romanzo definisce il “clima di autentica stupidità generale, tra farsa e tragedia, che segnò purtroppo un’epoca”. Ottusità, cecità, incapacità di cogliere l’assurdo e la piccolezza della realtà: questa è la commedia umana di Camilleri. Viene in mente il finale di Pioggia nera, uno dei più bei romanzi duri di Simenon, quando il protagonista, accortosi che si era trattato di molto rumore per nulla, esclama: “in fin dei conti a decidere tutto fu una questione di porri”.
















