Una canzone diceva “tanta nostalgia degli anni ‘90”: concretamente che cosa resta di quel decennio? Fin troppo spesso gli italiani ricordano quel periodo come privo di qualità interessanti, appiattito dal berlusconismo, ma è un giudizio fin troppo sbrigativo, che non tiene conto, ad esempio, di come molti grandi centri urbani (Roma, Milano, Bologna, Napoli) seppero diventare veri e propri luoghi vitali di cambiamento con i loro centri sociali, che proponevano forme di democrazia dal basso. Gli anni ’90 ebbero intrinseche trasformazioni della moda e l’esplosione della pubblicità, la controcultura digitale ed elettronica e anche i diversi movimentismi, controversi e interessanti al tempo stesso. Ora, grazie a un bellissimo libro di Valerio Mattioli, pubblicato dall’editore Einaudi, possiamo riflettere in maniera approfondita su quel decennio, che la retorica ufficiale ha compreso (e compresso) fra due date: da un lato il 9 novembre dell’89, col crollo del Muro di Berlino e la fine della Guerra fredda; dall’altro l’11 settembre 2001, con l’attacco al cuore di New York e l’inizio del presunto scontro fra civiltà. E in mezzo? Gli anni Novanta, quelli del Leoncavallo di Milano e del Forte Prenestino, a Roma, delle canzoni dei 99 Posse e delle riviste come “Decoder”. Negli anni ’90, mentre la politica ufficiale si sgretolava sotto il peso di Tangentopoli e l’Italia faticava a trovare un equilibrio, si affermava anche un’idea di politica multiforme, vissuta nelle assemblee, nei cortei, nei residui delle occupazioni, che avevano già caratterizzato gli anni ’70. Forse il quadro potrebbe sembrare confuso, ma gli anni ’90 sono stati, per alcuni aspetti, un fondamentale e misto laboratorio musicale di rap, reggae, techno, punk e hanno aperto la strada alla scena hip hop italiana e a tutte quelle etichette di musica indie, che poi si svilupperanno nel nuovo millennio. Non bisogna, però, far l’errore di ritenere quegli anni esclusivamente come un momento di passaggio.
Il mondo degli anni ’90 ha cambiato il volto a tutto ciò che è venuto dopo e non solo perché c’è stato lo scioglimento dell’Unione Sovietica, la nascita di nuovi Stati indipendenti (dal Baltico al Caucaso), bensì perché si è aperta ufficialmente, a livello geopolitico, l’era delle potenze globali fluide. Le suggestioni contenute nel libro di Mattioli ci stuzzicano e ci fanno riflettere sotto molti punti di vista rispetto a quel periodo. Innanzitutto nel 1991 abbiamo assistito, con una certa ansia, per chi di noi lo ricorda, alla prima guerra in diretta tv. Con l’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq e la risposta della coalizione internazionale, si è dato inizio alla guerra mediatizzata dei bombardamenti trasmessi in prima serata, durante le edizioni straordinarie dei telegiornali. E poi, sempre in quel 1991, Tim Bernes-Lee ha messo online il primo sito web della storia. Da allora, a ruota, sono arrivate le prime e mail personali, le chat e i modem. Che cosa era il mondo digitale degli anni ’90, se non un luogo caotico e creativo, ben lontano dalla sistematizzazione dei social network odierni? E mentre nel 1992 nascevano gli sms (che avrebbero stravolto le relazioni), l’Europa si trasformava con il Trattato di Maastricht, dando il via alla libera circolazione, all’identità europea condivisa e all’idea della moneta unica (anche se poi gli euro arrivarono, ufficialmente, solo nel 2002). Sempre in quei famosi e famigerati anni ’90 iniziò la stagione della biotecnologia, con la nascita della pecora Dolly, nel 1996, e di tutti i dilemmi etici che questa ha portato con sé, fino a oggi.
Gli anni di Mani Pulite si intrecciavano agli anni del canale MTV e della globalizzazione della cultura pop, dando vita a nuovi partiti, nuovi linguaggi divertiti, che, magari involontariamente, tentavano di mettere in sordina l’orrore di nuovi genocidi, come quello di Srebrenica, nel ’95, e quello del Rwanda dell’anno prima. Che cosa resta dunque degli anni ’90? La nascita della globalizzazione e l’emergere delle proteste “no global”, la diffusione capillare di internet e le prime crisi finanziarie globali, gli esperimenti d’avanguardia, i primi rave urbani e la diffusione delle identità liquide, come poi le avrebbe definite Bauman. Per la prima volta nella storia si pensò di essere ovunque, mentre si stava seduti alla propria scrivania di casa. Il mondo ci sembrava allargato e, invece, quasi senza accorgercene, lo stavamo restringendo, impoverendo le relazioni umane. Fu allora che nacque la disgustosa espressione “ci aggiorniamo più tardi”. In che cosa dovrebbero “aggiornarsi” due amici, che prendono un caffè al bar? Diciamo pure che con gli aspetti di quegli anni, è arrivato il colpo di grazia all’identità stabile: è arrivata l’idea di reinventarsi attraverso un nickname, sperimentando personalità alternative. È stata una vera conquista? L’interrogativo resta aperto, ma certamente dagli anni ’90 in poi, con l’idea della flessibilità lavorativa, è iniziata la lunga agonia dei contratti temporanei, della precarietà e degli inglesismi senza ragione.
















