C’è chi non dice “no”, pur pensando, chissà, di farlo. Contestare il verdetto di una giuria o di un premio è oggigiorno un esercizio terapeutico. probabilmente fa sentire meglio chi esercita, bene o male questo diritto, nell’illusione che il gesto giusto nel contesto sbagliato possa bastare a tacitare la coscienza che un tempo si sarebbe detta “infelice”, oggi è irrimediabilmente gaudente. È accaduto come da copione all’ultima Mostra cinematografica di Venezia quest’anno sulla falsariga di decenni passati in cui almeno la posta in gioco erano il mancato Leone a Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti nel 1960 o quello trent’anni dopo a Goodfellas di Martin Scorsese, non ancora intitolato (male) in Italia Quei bravi ragazzi. Con la reiterazione di presunti “no”, appunto: da festival, nei festival, ribaditi e diffusi sui social, quindi a maggior sragione ininfluenti, il corollario è la prevedibilità a oltranza: in deroga ad azioni più strutturali come nel 1968 sempre alla Mostra, tutto ciò che è accaduto, accade e accadrà di certo in un perpetuo passato/presente/futuro.
Cementare digitalmente quel potere strutturale che si pretende di controbattere non corrisponde alla sostenibile scelta minoritaria di respingere in blocco invece un sistema tragicamente competitivo, né aderire nel profondo all’etimo/etico del Ribelle, o “Waldgänger” nell’accezione da Ernst Jünger assegnata a chi, erga omnes, “passa al bosco”. Quando la finta minoranza fa il gioco infine della maggioranza cementata, la libertà non può dirsi tale contro la preponderante necessità di stare dove tutti possono diventare soggettivamente visibili, nell’invisibilità oggettiva. Non occorre prendersela con il minimalismo intransigente di un autore coerente e all’apparenza orizzontale, cioè Jim Jarmush, per quello che, piaccia o no, è un film: Father Mother Sister Brother; e inneggiare all’occorrenza a un altro film, piaccia o no: The Voice of Hind Rajab di Kaouther Ben Hania.
Spiace dire che i film sono soltanto film, ma è così se il raggio d’azione si esaurisce su una striscia di felice isola, in tutti i sensi, bagnata dall’acqua stagnante della Laguna, o la “recita della storia” evocata da Jacques Lacan è un tappeto rosso che per maniacale e trasversale anglismo omologato, linguisticamente ma con evidente rimando colonialista, viene chiamato “red carpet”. Sventolare bandiere, prendersela con il vincitore di turno e acclamare appena un possibile, diverso “successo” festivaliero significa dimenticarsi di quel passato presente del verbo “succedere” rimproverato da Carmelo Bene.
A chi o a cosa giova assecondare e perpetuare l’inerzia fisiologica da spettatori che accorrono al Lido per plaudire o agitarsi inutilmente, senza soluzione di continuità e carenza autoinflitta di scelta davvero alternativa? Sarebbe bello e costruttivo interrogarsi principalmente se sia il caso di esserci, essere proprio lì anziché altrove, a contestare un verdetto, coerente con un modello di società dello spettacolo che depotenzia la cultura e rende ogni espressione di dissenso una forma rituale di assenso. Arrivare in aereo, in treno o in automobile, per quindi imbarcarsi su una lancia o un vaporetto: “esserci”, restando per giorni lungi dal dedicarsi a un’azione realmente utile per gli altri non corrisponde esattamente a “essere” antagonisti. Altro è far sentire la propria voce a stretto giro ovunque, dietro l’angolo, con chi ha bisogno, in prospettiva concreta e modulare su un pianeta dove le guerre lontane o vicine si moltiplicano comunque e gli Stati si riarmano come bambini incorreggibili, ogni giorno più difficili, immaturi e problematici, sfuggiti all’insegnamento sostanziale della scolarizzazione di massa.
C’era una volta un direttore veneziano di natali baresi, di cui si disse fosse lì apposta per non far vincere il Leone dorato all’effettivo miglior film della competizione, realizzato da un regista dichiaratamente comunista. Veniva fischiato il verdetto e il direttore difendeva la sua estraneità ai fatti, mentre per un paradosso semantico nel cognome evocava, con il governo vigente presieduto dal democristiano Fernando Tambroni, l’opposto simmetrico del rosso politico portato in dote da Visconti con la sua parabola amara sull’immigrazione meridionale a Milano. Obiezione pienamente corretta e legittima: la giuria era indipendente, lui quindi non c’entrava, pur avendola nominata. C’era una volta e c’è ancora la Guerra fredda, ma almeno nei bei “mala tempora” andati e semplificati le riservate liste di proscrizione stilate nei confronti di comunisti o socialisti veri o presunti erano comprensibilmente parte integrante di un curriculum politico, ideologico e culturale.