Usciva nel 2023, non a caso a un anno dalla scomparsa di Mikhail Gorbaciov, il documentario Kissing Gorbaciov di Andrea Paco Mariani e Luigi D’Alife, rimettendo in pista il nome dello statista sovietico, premio Nobel per la Pace, che aveva cambiato il corso della storia contemporanea avviando il processo destinato a comportare la caduta del Muro di Berlino, il ricongiungimento delle due Germanie, quindi la dissoluzione di quella che oggi chiamiamo “ex” Unione Sovietica. Certo, non si può dire che con la sua figura eminente sia scomparsa del tutto dall’orizzonte la Guerra fredda, ma di fatto i segnali erano nell’aria, come recepito dal materiale ricomposto in Kissing Gorbaciov. Era il 1988 a Melpignano, nel Salento caro a Ernesto De Martino e alla musica dalle viscere etno-antropologiche e dal forte impianto socio-politico, quando le band rock sovietiche poterono scavalcare l’allora Cortina di Ferro. A marzo dell’anno successivo, in anticipo sugli eventi tedeschi, toccò alle band tricolore, in testa a tutte i CCCP - Fedeli alla linea, ricambiare la visita di cortesia in Unione Sovietica. Il film di Mariani e D’Alife è il racconto dal vero di quel tour, da cui si evince quanto sia stato il cinema intriso di spessore musicale, ovvero di rock serio, inteso a largo spettro come trait d’union civile e culturale, ad aver eletto Gorbaciov a icona trasversale di due secoli inseparabili, nelle prospettive migliori e nei fantasmi retrogradi di un passato che stenta a passare.
Non è un caso che il film-manifesto del 1987 di Wim Wenders, Il cielo sopra Berlino non sia rimasto orfano di un sequel altrettanto fondamentale. Non si è conclusa lì infatti l’ansia di abbattimento di quel Muro ideologico e geo-politico, in grado di coglierne tutta l’essenza interiore di lungo corso, tra rassegnazione e amore, bianco e nero e colore, Est e Ovest, cinema tedesco e statunitense, contemplazione del destino immutabile umano e rigenerazione, trascendenza e immanenza. Dopo Il cielo sopra Berlino, ammalato in via di guarigione della malattia del tempo, è scattato nel 2003, sempre per mano di Wenders, il capitolo seguente, pronto a intercettare i fatti con il senno ammonitore di poi: Così lontano così vicino (1993). Donde un remake sui generis molto “made in Usa” quale City of Angels - La città degli angeli (1998). Ma è proprio Così lontano così vicino il film paradigmatico, con un’anima profonda da rocker quanto quella del suo autore che assemblava alle immagini gli U2, Johnny Cash e Lou Reed, ad aver introdotto nel ruolo di se stesso Gorbaciov in un cameo memorabile in cui si affida anche lui al monologo interiore, udibile come soltanto agli angeli e agli spettori onniscienti è consentito sul grande schermo e in sala. Né è un caso che un altro cineasta e maestro della stessa generazione di Wenders come Werner Herzog abbia poi esteso la presenza gorbacioviana all’intero film-intervista Herzog incontra Gorbaciov (2018). La riflessione di Gorbaciov su Dostoevskij nel film di Wenders resta tuttavia un unicum: un segno del Tempo contemperato con la maiuscola in opposizione ai tempi, con la minuscola, quali quelli correnti, afflitti da un perpetuarsi del “delitto” senza “castigo”, del Kronos che non assurge alla dignità intrinseca del Kairos.
C’è molto cinema che ha nominato Gorbaciov o ne ha tratto spunto per interagire con gli eventi sullo sfondo o in primo piano, tra cui nel 2010 l’italiano Gorbaciof di Stefano Incerti con Toni Servillo, con la “f” finale nel titolo, che non è un refuso, ma una variante partenopea dell’arte di arrangiarsi e perseverare nel sottomondo dell’illegalità attraverso la trascrizione fonetica del modello onomastico. Da Così lontano così vicino, anzi da Caro Gorbaciov (1988) di Carlo Lizzani, fino a Kissing Gorbaciov, passando per una serie di titoli intermedi di cui è facile perdere il conto in un’approssimazione sempre per difetto, resta intatta l’impressione di un protagonista epocale che si è prestato al cinema e alla musica in una chiave più etica che politica, passando per la grande letteratura che nella modalità dostoevskiana era ed è inscindibilmente filosofia. Accanto alla decadenza internazionale della classe politica e dei capi di “Stato” (con la maiuscola iniziale solo per motivi d’ordinanza), ridotti sui social a meme o a emoji nella migliore delle ipotesi, anche il cinema ha perso i suoi riferimenti e si è smarrito in pratiche minuscole direttamente proporzionali allo “stato delle cose”, per citare sempre uno dei titoli chiave della filmografia wendersiana.