Il vento del Mediterraneo soffia tra gli ulivi della Puglia e quelli della Palestina, raccogliendo voci, memorie e radici. Ed è proprio questa l’immagine – le foglie d’ulivo che danzano al vento promettendo giustizia – che Alae Al Said, classe 1991, scrittrice italo-palestinese, vuole restituire al pubblico pugliese in vista dell’incontro a Polignano a Mare, per il festival de “Il Libro Possibile”, in cui presenterà il suo romanzo Il ragazzo con la kefiah arancione. Un’opera potente e viscerale, che intreccia la tenerezza del romanzo di formazione con la brutalità di un racconto collettivo ancora oggi negato.
Simbolo di pace, resistenza e promessa, l’ulivo diventa ponte naturale tra due terre che si somigliano per paesaggio, cultura e – in modo struggente – per la forza delle proprie ferite...
«L’ulivo è un’icona sia pugliese che palestinese. E in un passaggio del romanzo, queste foglie sembrano danzare, portando un messaggio di speranza. È l’immagine che spero resti nel cuore di chi verrà ad ascoltarmi».
Il titolo colpisce subito: “Il ragazzo con la kefiah arancione”. Cosa rappresenta quel colore, così inusuale?
«Tutto il romanzo è una metafora. La kefiah arancione è inizialmente simbolo di bullismo, di umiliazione. Ma indossarla diventa un atto di riscatto, come fanno i palestinesi: assumere su di sé ciò che l’oppressore usa per annientarti, e trasformarlo in orgoglio. L’arancione è anche il colore della terra fertile, quindi vita, radici. E poi resistenza.»
C’è un personaggio del libro che considera un simbolo o un alter ego?
«Senza dubbio Loai. È un po’ tutte queste cose. La sua esperienza di bullismo è la mia. L’ho vissuta alle medie. E ho iniziato a scrivere questo romanzo proprio nel 2020, quando stavo per diventare madre: la paura per ciò che mia figlia avrebbe potuto vivere mi ha fatto risalire quei momenti alla memoria. Ma il personaggio che vorrei essere è Renda, la madre. Nonostante tutto continua a inseguire i suoi sogni. Come diceva Virginia Woolf: cerca una stanza tutta per sé».
Il suo romanzo si muove tra due città, Hebron e Nablus, ma con uno sguardo italiano. Com’è scrivere da un confine?
«È complesso, ma per me naturale. Sono nata in Italia, ma a casa si parlava solo arabo, si cucinava palestinese, si viveva immersi nella Palestina. Guardavamo Al Jazeera ogni giorno, seguivamo la guerra come una realtà parallela. La Palestina mi vive dentro».
Due mondi, due narrazioni. Quanto è difficile tenerli insieme nella scrittura?
«Difficile, ma inevitabile. Come dico spesso: non conta dove nasce un albero, ma di cosa si nutrono le sue radici. E le mie si nutrono di Palestina. Cerco sempre un equilibrio, anche per evitare gli stereotipi, che sono una trappola narrativa continua».
Loai e Ahmad, i due protagonisti, sono due anime complementari. Cosa rappresentano?
«Due modi di resistere. Uno è audace, uno più fragile ma altrettanto profondo. Come accade nelle vere amicizie, si completano. Uno dà forza all’altro. E lottano, in due modi diversi, per la stessa giustizia».
A chi è rivolto il suo romanzo?
«A tutti. Ma in particolare ai bambini. Vorrei che lo leggesse un bambino palestinese bullizzato: per dirgli che non è solo. E vorrei che lo leggesse un bambino israeliano che fa il bullo: per fargli vedere cosa provoca».
Presenterà il libro in un festival mentre la Palestina brucia. Che effetto fa?
«È doloroso. Ma anche necessario. La letteratura oggi è forse l’ultimo spazio dove possiamo raccontare liberamente. I media hanno parole censurate, distorte. I romanzi, invece, permettono di entrare nel vissuto, nel dolore. E di immaginare. L’immaginazione colpisce più delle immagini già confezionate».
Scrivere per lei oggi è più un atto di memoria o di resistenza?
«Entrambe. Resistenza perché nomino le cose come sono, anche se oggi ogni parola è un rischio. Memoria perché il romanzo trasmette cultura, cucina, usi. È anche un atto contro il nostro culturicidio, cioè l’annientamento della cultura palestinese».
Cosa risponde a chi dice “non c’è più nulla da dire sulla Palestina”?
«Che si sbaglia. Finché c’è un bambino sotto un missile, c’è qualcosa da dire. Anzi, da gridare. Dal 7 ottobre in poi Israele è la prima causa di morte infantile nel mondo. È un dato di fatto. Non credo in chi si dichiara ProPal, non mi piace come definizione: non si è pro o contro qualcosa, in questa guerra si può essere solo a sostegno del diritto alla vita dei bambini. Tutto il resto è propaganda. E finché ci sono libri come questo, abbiamo il dovere di leggerli, scriverli, tramandarli».
Come pensa che il pubblico pugliese reagirà alla sua opera?
«Non sono mai stata in Puglia, ma so che è una terra mediterranea, come la mia. Mi auguro che questo legame tra popoli – l’ulivo, il mare, la memoria – arrivi al cuore di chi ascolta. Questo libro è un ponte. E io voglio attraversarlo insieme a mia figlia, che sarà con me alla presentazione. Perché il futuro va portato con sé».