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Restiamo umani con le parole

Restiamo umani con le parole

 
dorella cianci

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dorella cianci

Restiamo umani con le parole

È evidente che gli interrogativi sono ardui e che, da Platone alla Scolastica a Kant, fino alla filosofia del linguaggio, il tema è pienamente aperto

Lunedì 12 Maggio 2025, 06:54

Un poeta sufi, al–Hallaj, avrebbe detto che c’è un angelo, di nome Iblis, che piange costantemente. E perché quest’angelo piange di continuo? Soltanto perché vorrebbe evitare la distruzione delle cose, la dimenticanza della storia, delle persone, dei sentimenti e vorrebbe riportare in vita ciò che non c’è più, ciò che il tempo e la morte cancellano. Eppure – a pensarci bene – molto spesso le parole rappresentano ciò che resta ed è per questo che andrebbero scelte con cura. Diceva Alda Merini: «Amo coloro che scelgono con cura le parole da non dire». 

Scrive la premio Nobel Han Kang che «nella notte più buia, il linguaggio ci chiede di cosa siamo fatti» e collega questa frase a domande altrettanto pregnanti: «qual è il significato della nostra breve permanenza su questa terra?»; e ancora «quanto è difficile, per noi, qualunque cosa accada, restare umani»? Le premesse dinanzi a cui ci pone Han Kang, in questo libretto edito da Adelphi - che contiene anche il discorso pronunciato dalla scrittrice nella cerimonia di accettazione del premio Nobel - vuole collegare la nostra umanità alla capacità di linguaggio, che dovrebbe, sempre più, avvicinarci gli uni agli altri, opponendosi a ogni forma di violenza. Eppure, mentre volgiamo lo sguardo sulla nostra contemporaneità, vediamo soprattutto quella «notte buia» della violenza e della guerra, che si espandono anche attraverso un linguaggio aggressivo o sciatto. Sì, per certi versi siamo nel pieno di questa notte e l’autrice si chiede: «Perché il mondo è ancora così pieno di violenza e di dolore? E come può, allo stesso tempo, essere di una tale bellezza?». La Nobel ritiene che tutta la forza motrice della sua scrittura sia stata una profonda tensione fra questi due massicci interrogativi, che entrano in conflitto. Il linguaggio, dunque, diviene (o potrebbe divenire) un filo per collegare il nostro corpo a chi è capace di raccogliere quel filo attraverso un sentimento d’amore, di vicinanza, di rispetto. È questa la forte tesi di Han Kang: lasciamoci avvicinare dalle parole, lasciamo fluire il linguaggio per riconoscerci come esseri umani, abbandonando la brutalità dell’assenza di linguaggio, che è la violenza animalesca.

Il linguaggio, tuttavia, è composto solo di umanità? Non è facile poterlo affermare serenamente, proprio perché ciò che abbiamo sotto gli occhi, la nostra quotidianità, non parla certamente di amore, ma esprime violenza, aggressività, disfattismo. E allora, in questo buio, che cosa resta? Hanna Arendt direbbe che «resta la lingua», un passo prima del «linguaggio», cioè ciò che ci portiamo dentro e, come direbbe il filosofo Giorgio Agamben, «c’è una parte della vita e della lingua che salviamo dalla rovina e che intrattiene una relazione particolare col perduto». Dice ancora Agamben: «La domanda non è “che cosa abbiamo avuto” o “che cosa abbiamo mancato”; la domanda non è “che cosa si salva”. La vera domanda è “che cosa resta?” – non come una particella del passato, ma come qualcosa di nuovo, che sorge per la prima volta e spezza la trama che la memoria e il linguaggio tessono e disfano in ogni istante».

È evidente che gli interrogativi sono ardui e che, da Platone alla Scolastica a Kant, fino alla filosofia del linguaggio, il tema è pienamente aperto e spacca le diverse correnti filosofiche. Il suggerimento personale è quello di rivolgersi a ciò che siamo stati per affrontare «la notte buia» e come diceva Virginia Woolf, «quando mi sento persa, è al greco che torno». Poniamo allora al centro questo interrogativo: siamo ancora figli del greco? Il greco è quello che resta per descrivere, a parole, la nostra umanità? Forse la Pizia sarà stata pure stizzita, un tempo, dall’ingenuità dei greci,  dal loro essere creduloni, stando alle tesi di Durrenmatt, ma va detto che, nel crocevia di Delfi, lì dove c’era l’Oracolo, è nato uno dei termini più belli -  «enigma» -  che lega, come un filo (per dirla con Han Kang) la sua esistenza alle esistenze di chi cerca di dipanarlo; non c’è nascita e non c›è vita senza «enigma», senza quel brancolare, ora disperato ora gioioso, nel buio della notte. E l›enigma torna a bussare alla nostra mente ogni volta che c›è una guerra. Vorremmo tutti rivolgerci a una Pizia per sapere che cosa fare, dove andare, quale strada intraprendere. La lingua greca, in diversi casi, ci ha dato le parole per esprimere sentimenti e concetti sentiti sin dalla notte dei tempi, ma poi resi ineffabili dalle nostre scarse capacità linguistiche. La lingua greca e il suo svolgersi, in un linguaggio sempre nuovo e sempre ravvivato, ci fornisce l’idea plastica di «quel che resta».

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