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La magia di un ritmo innato: il Falstaff del 2007 al Piccinni

 
Livio Costarella

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Livio Costarella

Bari, settant'anni della Costituzione

Il teatro Piccinni di Bari

Lunedì 14 Aprile 2025, 05:02

Roberto De Simone aveva un ritmo innato, in tutto ciò che faceva. Ed era stato tante cose: regista sempre fantasioso, a teatro e all’opera, con allestimenti che conducevano lo spettatore in mondi evocativi e carnali, con un occhio rivolto alla tradizione, ripensata e modulata ai giorni nostri. Chi scrive ha avuto l’onore di intervistarlo per la Gazzetta del Mezzogiorno nel dicembre 2007, quando era tornato a Bari per una delle sue attesissime regie, il Falstaff di Giuseppe Verdi. In tempi in cui il Teatro Petruzzelli non era ancora stato riaperto dopo l’incendio del 1991, la Fondazione Petruzzelli organizzava i suoi cartelloni al Teatro Piccinni. E l’incontro con un De Simone ispiratissimo fu l’occasione per una chiacchierata a largo raggio sulla musica, prima di immergersi nel Verdi scespiriano. A microfoni spenti, commentava la sua giovinezza pianistica: a soli 10 anni si era iscritto al Conservatorio di San Pietro a Majella a Napoli, iniziando dopo il diploma anche una discreta carriera concertistica. A 15 anni aveva eseguito il Concerto per pianoforte e orchestra K. 466 di Mozart (tra gli autori prediletti), per il quale scrisse anche le cadenze. E l’amore per il genio salisburghese l’aveva appena riversato, proprio nel 2007, in un pamphlet delizioso - Novelle K 666. Fra Mozart e Napoli (Ed. Einaudi): un altro modo di raccontare Amadeus in relazione alla città partenopea, che Mozart visitò dal 14 maggio 1770, per sei settimane. «Mozart aveva appena 14 anni - spiegava De Simone - e Napoli sembrava avergli trasmesso la labilità dei confini tra vita e morte, fra commedia e tragedia, fra sublime e terreno, fra trasgressione e convenzione, fra genio e demenza».

La conversazione “pianistica” andò poi avanti, e nel parlare di grandi esecutori legati ad altrettanti colossi della composizione, De Simone richiamava una frase sulla musica di Fryderyk Chopin attribuita ad Arturo Benedetti Michelangeli, sposandola in pieno. «Le sue composizioni - disse - sono talmente meravigliose quanto inflazionate, e spesso martoriate da giovani pianisti e studenti di Conservatorio. Ci vorrebbero almeno 10-15 anni di assoluto silenzio su tutta la produzione chopiniana, nessuno dovrebbe più eseguirla. Per permetterci poi di riascoltarla con rinnovato vigore, e con interpretazioni che ne restituiscano autenticamente il valore e la bellezza intrinseca».

Sapeva essere un bonario provocatore, dall’alto di una conoscenza enciclopedica. Ed era soprattutto cosciente che «Tutto nel mondo è burla», come cantano Falstaff e gli interpreti, in coro, al termine dell’omonima opera di Giuseppe Verdi, l’ultima scritta dal genio di Busseto ottantenne, quando lo spettacolo debuttò il 9 febbraio 1893 al Teatro alla Scala di Milano. Commedia dell’arte, gioco, burle e maschere si incrociano mirabilmente nell’ultimo capolavoro ispirato a Shakespeare (dopo Macbeth e Otello, il libretto di Arrigo Boito si ispirò all’Enrico IV e a Le allegre comari di Windsor) e mai testamento artistico fu più idoneo a celebrare Verdi sui palcoscenici di tutto il mondo.

«Eppure Verdi conosceva ben poco dell’aspetto esoterico che ruotava attorno a Shakespeare - affermò De Simone nell’intervista, che qui vi riproponiamo - e a quel mondo culturale inglese a cavallo tra ‘500 e ‘600. Eppure resta la sua partitura più innovativa e significativa. Non era la prima volta che Verdi e Shakespeare si “incontravano”, ma qui l’elemento interessante è l’identificazione totale di Verdi in Falstaff, che nell’opera è un vecchio nobile in declino deriso un po’ da tutti, soprattutto dalle donne che tenta di sedurre. Verdi si sente come un guerriero sconfitto a causa dell’Unità d’Italia, foriera di forti disillusioni per la caduta delle ideologie politiche in cui aveva creduto».

Come penetra il compositore nell’universo magico scespiriano?

«Lo tratta non come un travestimento musicale, ma come un elemento veritiero del dramma. Il terzo e ultimo atto è il più interessante dell’opera, con la tregenda ordita alle spalle di Falstaff, assalito e tormentato da uno stuolo di finti spiriti. Tutto si rifà alla commedia dell’arte di Shakespeare, ma sebbene non sia la prima comparsa di un mondo magico in Verdi, qui c’è qualcosa di straordinariamente poetico. La musica parla da sola e sembra suggerirci due domande: l’opera allude davvero al mondo magico? O tutto si riduce in una superstizione popolare che si attiva come mascherata?».

Forse la risposta è in Shakespeare stesso?

«Sicuro. A cavallo tra ‘500 e ‘600 molti studiosi inglesi erano imbevuti di un esoterismo rinascimentale che prendeva le mosse dalla cultura della magia tipicamente nordica. E, secondo queste interpretazioni, il significato simbolico delle comari è quello di streghe o fate. È un gioco magico della rappresentazione in cui viene fuori un elemento dominante e modernissimo: è il potere sessuale in mano alle donne, che puniscono Falstaff per la sua sensualità e lascivia o Ford per la sua gelosia».

La disillusione politica di Verdi è l’altro elemento che rende quest’opera più che moderna.

«Sembra quasi profetica. Anche noi, oggi, viviamo una tremenda verità politica, figlia di un ’68 che non ha mantenuto le promesse che lo caratterizzavano. La nostra realtà è costituita da una clamorosa “devolution” in ogni settore della vita ed ecco perché questa commedia lirica di Verdi è non solo uno straordinario testamento, ma anche un monito significativo. Giacomo Puccini lo riprenderà benissimo nel Gianni Schicchi: non è infatti un caso che Schicchi e Falstaff si assomiglino così tanto».

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