ALBERTO SELVAGGI
È finita domenica scorsa la doppia «tre giorni» del Festival dell’Oriente nella Fiera del Levante di Bari (30 settembre e 1-2 ottobre, 7-8-9 ottobre). Ma resterà quale riflesso di un fenomeno crescente che si chiama «via occidentale all’Oriente», o «allo Yoga», essendo questa filosofia la più nota dalle nostre parti.
Una folla impressionante, con code su due ordini per 10 euro di biglietto a cranio, è piombata in questa astronave gigantesca planata da un altro spazio, rassicurante come l’ignoto spirituale, sgargiante e dalle mille offerte di qualità (show, ristoranti asiatici e mediorientali, spazi massaggi, aree yoga e d’arti marziali, editoria, abbigliamento, tendoni da deserto sotto i quali mangiare, finti cammelli e elefante a grandezza naturale, area di tappeti e cuscini per fumare narghilè sdraiati, tatuaggi arcaici e terapie live, happening di meditazione, cerimoniali, e tutto ciò che ancora riuscite a immaginare). Ma dietro l’approccio folclorico da weekend familiare c’era altro, e non soltanto per i numerosi cultori baresi e pugliesi di religioni o pratiche orientali, buddisti in primis, concentratisi nei venerdì di minore caos. Ovvero, l’inarrestabile avvicinamento fra l’Oriente che stiamo scoprendo e di cui godiamo, e l’Occidente digitalizzato dal quale cerchiamo scampo. L’unione nel Taijitu cinese dello Yin nero e dello Yang bianco, simbolo che il Festival dell’Oriente itinerante nelle principali città italiane - staff di Massa Carrara - ha scelto come simbolo, non a caso.
Lo Yoga è una realtà che si espande, soprattutto negli animi. Tanto da invadere la pubblicità: condizionatori d’aria con la modella nelle posizioni del loto, automobili smerciate con il santone indiano sul tettuccio, garante di sicurezza e pace. Gastronomia, arte. La tendenza non ha niente a che fare con l’orientalismo del Flower Power: serve a curare, non a generare lo sballo. Né con la moda estetizzante primi Novecento, che andava dal concetto di «linea» nipponica Liberty a Turandot e Butterfly. Perché la maggioranza silente occidentale anela soltanto una cosa: salvarsi. Alleviare la pressione del vivere bulimici informati, informatizzati e sempre collegati.
Fuggiamo da un mondo che per troppi versi è una porcheria non reincarnabile. Della quale il telefonino è emblema assoluto (il nostro Om), sillaba sacra, dominus della coscienza univoca dell’umanità. Perché, come ha dimostrato il Festival dell’Oriente in queste giornate cultural-commerciali, tra mature baresi che sbavavano per i torsi nudi di stupendi ballerini bollywoodiani («Madonna come sta tutto sudato..!»), ragazze che s’imperlavano del terz’occhio, medici del Policlinico che si sottoponevano all’esame dell’aura, idraulici che s’otturavano di lenticchie al curry e tagliatelle di riso thailandesi fantastiche, salentini a caccia di spiritualità extra-Taranta, abbiamo già contaminato gli eletti venuti a salvarci. Sì, proprio quelli dell’impermanenza, dell’interdipendenza universale.
Ecco gli straordinari musicisti del Khukh Mongol con gli occhi inghiottiti dai cellulari, offrire ai flash furtivi sorrisi atarassici. Danzatori del shangra coronati in zafferano smanettare su Facebook nell’attesa della performance. Monaci zen con segnale di chiamata incorporato. Senza contare i tatuaggi da rapper «ceppisti» (abitanti del quartiere popolare ex Cep di Bari, oggi San Paolo) sui bicipiti di alcuni ballerini della Bollymasala Dance Company, che digitavano sui social i mantra o chissà cos’altro. Da cui se ne deduce che loro hanno perso ciò che noi abbiamo guadagnato.