Secondo me, maestro Benedetto Lupo, a parte i concerti evaporati, dopo il coronavirus non è cambiata molto la sua vita di concertista e di didatta del piano. Dato che si risolve comunque in ciò che Riccardo Muti ha sintetizzato: sgobbare, sgobbare e sgobbare.
«In parte sono d’accordo, c’è nella classica una fondamentale componente di studio costante, senza contare la fisicità che ugualmente va esercitata. Però c’è anche l’arte, senza la quale non si comunica. Dopo l’emergenza noi musicisti viviamo nel caos. Alcuni miei concerti invernali sono stati annullati, altri che sono invece prossimi, confermati».
Un Lupo chiuso mesi in gabbia.
«La clausura ad Acquaviva delle Fonti mi ha concesso anche spunti di consolazione. Ho ascoltato musica barocca diretta da Bernard Labadie con il quale dovevamo incontrarci a Dallas. Amo tutto ciò che eseguo, ma a casa ho amato anche ciò che non avrei eseguito mai. Medtner, ma soprattutto Bach che mi ha rasserenato; la sua musica ha il potere di guarire l’anima. Il 29 febbraio non lo dimenticherò mai: suonai a Perugia in un clima già inquietante. Le ultime lezioni all’Accademia di Santa Cecilia a Roma con giovani terrorizzati. Poi il passaggio da remoto, evitando la scarsa qualità fornita da Zoom e Skype. Video degli studenti scaricati sull’iPad che, per fortuna, mia figlia Pamina, ingegnere gestionale, mi aveva lasciato. Ho sviluppato una competenza digitale, pur essendo negato. Analisi dettagliate, pdf degli spartiti appesantiti dagli appunti, scarica e carica, sette ore per un iter che dal vivo completavo in un’ora e mezzo al massimo. Pianoforti in condizioni pietose per l’impossibilità di accogliere l’accordatore, corde sostituite in protezione con cavi da giardino. Un delirio, ma anche occasione per le classi di acquisire nuova consapevolezza. E la caduta della scusante rituale: maestro, sa, lo eseguivo meglio a casa».
Sono contento di non essere suo studente. Sta parlando con uno che è stato radiato dal Conservatorio di Bari.
«Beh, questo non lo sapevo. Però, se mi concede la battuta, avendo letto suoi articoli e libelli vari, posso immaginare».
Facevo filone come a scuola.
«Complimenti, la migliore maniera per frequentare».
Comunque beccarsi un accademico implacabile nel corso di perfezionamento deve essere amara. Lo dicono i suoi discepoli, pur venerandola, perfino quando assurti a livello internazionale.
«Si è risposto da solo. Secondo lei come si possono raggiungere risultati lasciando l’individuo al lassismo, all’istinto che andrebbe invece incanalato? La severità è una forma di attenzione per l’arte come per le persone. Molto comodo fare il didatta compagnone, io e te uguali, e giù pacche sulla spalla. Questo secondo lei significa fare il bene di uno studente? Questo vuol dire volere bene? Mi sa che è il contrario. Per cui perfino quando non vorresti ed è dura farlo, hai il dovere morale di far muro».
È come avere, invece che un papà sessantottino, un vero padre.
«Esatto».
Mi irrita il costume esecrabile della perdita di ruolo che subiscono oggi gli insegnanti della scuola ordinaria. Sottopagati, presi a pernacchie e a calci, e dopo a sberle e a denunce pure dai genitori dei ragazzi, se si azzardano a dire «a».
«È la deriva della decadenza generale. E la causa primaria non sono i giovani bensì chi li ha diseducati».
Debutto ufficiale con Beethoven a 13 anni il 1° dicembre 1976, giorno del compleanno di sua madre, con l’orchestra di Bari. Al Petruzzelli che non si scorda mai.
«Anche per questo resta, con l’Orchestra, nel cuore il mio teatro».
Senza contare che negli uffici della Fondazione si aggira il suo doppio che, senza volerlo, la segue da anni. Quel Benedetto Lupo di Bari costantemente contattato da pianisti aspiranti, un tempo con invii di nastri e oggi con file audio.
«E lei come lo sa? So che il mio omonimo, oggetto di scambi di persona sistematici, lavora come amministrativo, ma non l’ho mai incontrato».
Glielo presento: siamo amici ed ex condomini fin da ragazzi, giocavamo a pallone in via Francesco Muciaccia, quartiere San Pasquale.
«Non ci credo nemmeno se me lo giura».
Giuro invece; andiamo avanti. Nino Rota la pose sotto l’ala di Michele Marvulli e Pierluigi Camicia, poi Marisa Somma, Sergio Perticaroli e Aldo Ciccolini, master da Magaloff a Perahia, giù da una vita a martellare 88 tasti.
«Chi sceglie questo tipo di percorso sa di andare controcorrente fin da bambino. Sono nato a Bari, vicino al Conservatorio, mio padre era chirurgo al Policlinico e suonava diversi strumenti. Quando avevo cinque anni ci spostammo a Cerignola, dove lui acquisì un ruolo chiave in ospedale. Presi le prime lezioni di musica. Finché mi presentarono a Rota. Mi spostavo a Bari per studiare. Anche mia madre, professoressa, fu favorevole a un avvicinamento alla sede dei miei studi e così la scelta cadde su Acquaviva, dove papà esercitò nel Miulli e dove risiedo tuttora».
Sua moglie, Rosanna Casucci, docente al Conservatorio di Monopoli, è acquavivese pura.
«Sì, ma non ha parentela con i famosi Casucci delle scarpe. Ho studiato al classico di Gioia del Colle, guardavo i compagni che conducevano una vita diversa dalla mia, poi ero un trapiantato, non conoscevo il dialetto né coetanei. In più si consideri che mio padre aveva origini salentine, ricordo il suo motto “la Magna Grecia è in tutti noi”. E mia madre pure è di quelle parti. Tanto che quando suono a Lecce i giornali titolano: torna Benedetto Lupo, di origini salentine».
E figurati.
«Conosco la sua idiosincrasia per l’autoesaltazione salentina, soprattutto in campo musicale. Ebbene, ora sa che l’ennesimo nome noto in questo campo proviene dalla terra della pizzica e della taranta».
E sì.
«Nel periodo delle radio libere, sa, ad Acquaviva ho curato una trasmissione di musica classica. Proposta più unica che rara. Amavo la letteratura greca, più della latina, non so perché».
Perché è superiore.
«Forse ha ragione. Sono tra gli allievi de “la Procino”, temuta perfino dai genitori».
E mentre lei espone, dal Lincoln Center di New York al Philarmonic di Berlino il suo sorriso immacolato, nel pianismo, come nel resto della classica, avanza la sfilata delle scosciate.
«Sapevo che saremmo arrivati qui».
Bellissime discinte che suonano Chopin in video estasianti. Addirittura una violoncellista desnuda velata con marchio Deutsche Grammophon. Che ne scriverebbe Agostino con le sue teorie d’armonia celeste e d’incorporeità musicale? Come ci resterebbe Robert Schumann autore di scritti elevati sulla musica romantica?
«Anche nella classica si è insediata la dittatura dell’apparenza. Il problema è ciò che resterà».
Meno male che è arrivato Giovanni Allevi, plin-plin-pin, eh-eh-ah, per migliorare – parole sue – le composizioni di Mozart e di Brahms.
«Sì, meno male. Certe mitologie mi fanno pensare. Pure un Allevi, al limite, può andare. Il problema è essere consapevoli che si tratta di tappezzeria e non di un arazzo. Discorso che, dagli scrittori odierni con le case editrici alla musica leggera delle etichette discografiche, riguarda oggi ogni forma d’arte».
Lei lo invidia perché ha migliorato i Preludi di Scriabin.
«Di Allevi invidio soltanto la lozione per capelli, visto che ne ha tanti. Io i miei ormai li ho dimenticati».