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«Il Papa ha fede anche nel cinema»: l'intervista a Sergio Rubini

 
Alberto Selvaggi

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Alberto Selvaggi

«Il Papa ha fede anche nel cinema»: l'intervista a Sergio Rubini

«In quarantena sono stato bene. Ho un film sui De Filippo»

Domenica 17 Maggio 2020, 11:20

Non sto dicendo che non le credo, semplicemente, trovo inusuale questo atteggiamento. Perfino il suo amico Rocco Papaleo, che modula il suo periodare lucano serenamente, ha confessato sofferenza in quarantena.
«E io invece no, ribadisco che l'ho vissuta, la vivo piuttosto bene. Anzi quasi è stata una agevolazione, un incentivo per il mio mestiere. Senza virus avrei organizzato le giornate alla stessa maniera, ma in questo contesto procedo addirittura meglio. Con concentrazione perfetta. Non mi pesa. La riduzione del contatto umano visivo e tangibile non la subisco come qualcosa di coercitivo. Avevo molto lavoro in cantiere e nella condizione meditativa l’ho concluso al meglio: ho appena finito di scrivere un film sui fratelli De Filippo per la Pepito Produzioni di Roma. La sofferenza è determinata invece dal vedere altri che rischiano, medici, infermieri e tutti gli altri che si trovano in prima linea e rischiano».

Ha un gatto in casa?
«No».

Un cane.
«Nemmeno».

Bestie qualsiasi.
«Non ho niente».

Ma ha Carla, vero?
«Certo, sono qui con la mia compagna, ci siamo organizzati perfettamente, anche perché abbiamo la fortuna di avere proprio di fronte a casa nel quartiere Monti a Roma un negozietto che ha tutto l’occorrente, dalla spesa al resto. Telefoniamo, facciamo la nostra ordinazione, lasciamo il denaro dietro alla porta e loro ci posano sull’uscio la spesa col resto. Così io e Carla eludiamo anche il contatto da approvvigionamento».

Carla Cavalletti.
«Cavalluzzi».

Sì, Cavalluzzi, certo. Mi ha stupito questa faccenda. L’attore Rubini, concupito da chissà quante donne, da uomini silenti con gusti diversi, va a beccare giusto una sceneggiatrice del suo paese. Non milionaria, non famosa all’epoca: ma grumese.
«Lasciai Grumo Appula non per senso di inadeguatezza ma per le necessità lavorative dell’epoca. Adoro il mio paese e i tanti amici, spesso più grandi, che mi hanno formato nella musica, sui film, sugli scrittori. Amo la Puglia, pur criticandola quando necessita, in modo dialettico. Mi commuovono le tradizioni, allemande, ricci, cozze alla marinara, fave fritte, gli allievi, la birra. Vivevo in periferia, zona povera, finché negli anni Settanta ci trasferimmo più in centro, all’ultimo dei cinque piani del grattacielo che costruirono».

Bella questa.
«Era tutto segnato dal destino, evidentemente. Sono come Ulisse che torna alla sua Itaca. Sa, la donna che da vent’anni vive con me è cresciuta giusto a cento metri da quella che era casa mia. Figlia di amici di famiglia. Quindi posso dire che l’ho semplicemente rincontrata».

Per la miseria.
«E sì. Fin dal mio arrivo a Roma a 18 anni nell’Accademia di arte drammatica ho avuto incontri legati alla mia professione. Anche con Carla ci siamo trovati in questo contesto. E il filo ci ha uniti per affinità chiarissime, pur essendo lei molto più giovane di me (18 anni, ndr). Si è laureata in filosofia con una tesi su Il cinema di Kieslowski: l’inferno dell’etica (Università di Bari, 110 e lode, ndr). Abbiamo scritto insieme i miei ultimi film, ci confrontiamo, amiamo ambedue leggere, io con un orientamento letterario, lei più legato alla sua formazione. Amiamo la pratica, il rito della scrittura immensamente. Amiamo il cinema insieme. E il fatto che lei non sia attrice mi ha permesso di parlare veramente per la prima volta di film, a differenza che con partner del mestiere. Perché tra colleghi inevitabilmente si finisce con il discutere di budget, produzioni, distribuzione, eccetera».

Rubini non è solo come il Papaleo che non ha manco un fantasma lauriota nella cameretta. Ma una mancanza dovrà pure averla. Spero.
«Beh certo, ed è una mancanza molto grande. Che mi fa soffrire sul serio. È mio padre, 86 anni, che vive con mia sorella Stefania, diplomata in pianoforte, cinquantenne. Mio padre che, per le restrizioni sui viaggi, da Natale non riesco ancora a vedere».

Alberto, ex capostazione artista, e viceversa.
«Pittura, recitazione, qualche film… A mia madre invece, scomparsa sei anni fa, insegnante elementare, devo la passione per la narrativa. Non ho capito ancora come si può viaggiare adesso secondo le regole. Non posso permettermi di fare poi la sosta di quarantena. Anche quando il 23 febbraio interruppi la tournée teatrale, dal Nord evitai di tornare in paese per sicurezza. Ma è tremendo. Non vedere mio padre mi fa stare male veramente. E forse questo affetto così forte mi ha fatto vivere ancora peggio l’ignobile disparità di trattamento riservata durante la pandemia ai vecchi. Perché se mi toccano mio padre io sono capace di ammazzare: lo dico».

E fa bene. Uccidere non sempre è un delitto.
«I vecchi sono il nostro patrimonio. La biblioteca di vita e il riferimento senza i quali non c’è crescita».

Il vecchio è un po’ come un film d’autore. O come attori, registi, tecnici che nel sociale conformano la sprezzabile idea del superfluo.
«E saremo pure superfluo. Ma già che hanno riaperto i parrucchieri, che io rispetto assolutamente, ai cinema e ai teatri nessuno ci pensa? Sa chi ha pensato a noi invece, prima che qualcosa si muovesse dopo l’oblio totale dei primi decreti? Papa Francesco che dedicò agli artisti una messa. Con Favino, Salvatores, Mastandrea, altri del cinema abbiamo incaricato lo scrittore Sandro Veronesi di redigere una lettera di ringraziamento, con dono di un Cristo di Mimmo Paladino. E il pontefice sa cosa ha fatto? L’altra domenica ci ha benedetto, ringraziandoci del ringraziamento, commuovendoci tutti quanti, credenti e non credenti. Mi ha avvisato mia suocera da Grumo, che non perde una funzione su Tele2000, alle 7».

Tv2000.
«Sì giusto, Tv2000, precisamente».

È una questione di fede.
«Il Pontefice crede nel cinema, negli artisti, evidentemente. E ha generato i primi, timidi interventi. La politica dovrebbe aiutare con sovvenzioni gli esercenti. Contribuire a sviluppare una rete che lanci i film non soltanto nelle sale ma su ogni piattaforma al contempo. Perché quest’arte a mio parere sta bene e rende. Come dimostra la lodevole operazione compiuta in Puglia dall’illuminato Nichi Vendola, e che Michele Emiliano ha sviluppato ulteriormente. L’Italia è famosa nel mondo per l’arte, per la cultura: vogliamo gettare a mare il Dna di un paese? Io non voglio riaprire le sale immediatamente, penso anzi che i film bloccati in uscita dall’emergenza siano superati, rappresentando una realtà senza mascherine, ormai desueta. Ma voglio che si valuti la realtà di un comparto alla fame. E non parlo per me, che sono più fortunato di tanti sfortunati colleghi».

Nel frattempo si è impegnati a non tirare le cuoia prima del tempo. Vivere è una cosa piacevole.
«E noi meridionali nel dramma abbiamo dato il meglio, impartendo una sonora lezione a chi abitualmente ci deride e ci offende. I cosiddetti “settentrionali civili”, responsabili, previdenti e ligi alle regole siamo stati noi stavolta: non quelli della Lombardia o del Veneto. La sanità del Sud ha dato prova di efficienza, talvolta soccorrendo chi fa del razzismo la sua bandiera. Perché non hanno chiuso le frontiere delle aree settentrionali più a rischio? Le viene in mente per caso la parola Confindustria per Bergamo? E crede che se i focolai mortali fossero scoppiati sotto la linea gotica, il Nord non avrebbe eretto istantaneamente contro gli untori terroni una muraglia cinese? Questo è l’insegnamento che, nella tragedia, ci ha dato il coronavirus. I settentrionali si sono scoperti terroni della peggior specie. E noi ciò che siamo sempre stati, se liberati dal pregiudizio più rozzo e più cretino».

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