«Abbiamo ancora un conto aperto. Forse lo hai dimenticato ma il tuo debito non è estinto. Ci sono gli interessi da saldare. Quei soldi ora ci servono. Gli amici di cui ti ho parlato, aspettano tue notizie. Posso venire dove lavori. Tu esci e io ti aspetto». Dopo due mesi di distanziamento sociale il telefono è tornato a squillare. Il rischio di venire notati mentre riscuotevano la «rata» del prestito concesso a tassi da usura, in una città semi deserta, li aveva scoraggiati a farsi vivi. Sarebbe stato impossibile dimostrare di essere usciti di casa per «comprovate esigenze lavorative», spinti da «assoluta urgenza» o per «motivi di salute». E così gli strozzini sono rimasti in silenzio fino alla vigilia della Fase 2. «Non li sentivo da mesi. Pensavano che mi avrebbero lasciato in pace» spiega alla “Gazzetta” la vittima, che per raccontare la sua storia ha posto una sola condizione «assoluto anonimato».
La pandemia ha costretto la criminalità a modificare il proprio «business plan». Molti rubinetti si sono chiusi. Chi non lavora ed è chiuso in casa non può pagare. E allora boss e picciotti sono stati costretti a dilazionare i pagamenti, ad accettare delle proroghe, a prendere tempo, a ricontrattare importi e periodi di «copertura».
«Ho sperato che mi lasciassero in pace una volta per tutte e invece sono tornati alla carica. Stanno uscendo dall’isolamento e hanno bisogno di tornare a fare soldi. Da lunedì c’è molta più gente per strada. Questi individui sono convinti di poter avere ora maggiore libertà di movimento. Mi hanno detto che sarebbero venuti a trovarmi per ricucire il nostro rapporto di affari». Poche centinaia di euro per volta, con cadenza più o meno regolare, un flusso modesto per ogni singolo versamento e senza una scadenza precisa, lasciando tutto nel vago.
«Ho chiesto un prestito di poche centinaia di euro – spiega l’uomo senza precisare quanto – in un momento in cui ero rimasto al verde. Sono arrivato a loro attraverso amici comuni e mi sono fidato, sottovalutando il rischio. Ho pensato che alla fine, saldare il debito con gli interessi non sarebbe stato così difficile, che avremmo trovato un accordo. Sembravano persone ragionevoli. Invece sono caduto in un pozzo senza fondo. Ho restituito il capitale, ripeto poche centinaia di euro e poi gli interessi ma loro hanno continuato a chiedere. “Dacci poco, andrà bene” mi dicevano. Mi lasciavano in pace e dopo un po’ tornavano alla carica. Alla fine ho detto chiaramente che non ero più in grado di pagare. L’inizio del lockdown ha interrotto ogni tipo di contatto. Credevo fosse finita, che si sarebbero dimenticati di me e invece no».
Il racket delle estorsioni e dei prestiti a tassi usurai è un fenomeno criminale presente soprattutto in alcune zone ad alta densità mafiosa. Garantisce introiti sicuri e rappresenta un valido strumento di fidelizzazione della «clientela». Il fenomeno è sempre più esteso, sfaccettato e radicato. Non mira ad entrare solo nelle piccolo società, nei negozi e nei cantieri, ma anche nelle famiglie e nella vita personale dei singoli individui. Domanda e offerta si incontrano in vari modi. I protagonisti non sono solo gli esattori dei clan ma ci sono anche piccoli malviventi che a volte mantengono a volte millantano contatti con la grande criminalità organizzata. A infilare la testa del cappio dei cravattari non ci sono solo commercianti e piccoli artigiani ma anche impiegati, commessi, operai, rappresentanti, madri di famiglia. Bussano alla porta di questi taglieggiatori come ci si presenta allo sportello di una finanziaria, di una banca, sapendo però di non poter mettere sul piatto garanzie concrete ma comunque decisi a firmare cambiali senza una data di scadenza.
In ballo non ci sono solo grosse cifre ma anche piccoli prestiti che vanno sotto i 200 euro e non superano la soglia dei 1.000 euro. È comunque un salto nel buio. La pandemia ha modificato gli scenari economici dei territori. Ma la camorra barese, come tutte le altre mafie, possiede una natural capacità di adattamento ai mutamenti economici e sociali.