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Bari, «Avanti con i tamponi in tutti gli ospedali»

 
Massimiliano Scagliarini

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Massimiliano Scagliarini

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foto Tony Vece

Gesualdo (Università di Bari): servono a garantire la sicurezza, i test rapidi non sono affidabili

Domenica 26 Aprile 2020, 11:11

15:35

BARI - «I tamponi non devono essere fatti solo al Policlinico ma in tutti gli ospedali. Esistono categorie ad alto rischio che devono essere sottoposte a screening, e il test sierologico non è sufficiente». Il professor Loreto Gesualdo è il preside di Medicina, ed insieme ai colleghi ha firmato la lettera con cui chiede alla Regione di poter effettuare tamponi sul personale sanitario, «anche come garanzia ai pazienti sulla sicurezza del sistema».

Il Policlinico ha in corso una sperimentazione (tampone in parallelo al test sierologico) per valutare la bontà del test rapido: nelle prime tre settimane, su circa 1.900 tamponi sono stati trovati tre positivi. Per l’ospedale è un buon risultato, in quanto dimostra che il virus non circola. «Abbiamo messo a punto un percorso e un protocollo che hanno evitato i contagi - conferma Gesualdo -. Qui non stiamo parlando di tamponi a tappeto a tutti. È fondamentale farne con intelligenza. Ci sono alcuni setting sanitari ad altissimo rischio in cui dobbiamo fare attenzione. Lo screening è utile perché ci sono persone asintomatiche che potrebbero essere fonte di infezione. È fondamentale fare tamponi perché i test sierologici non sono ancora stati verificati: potranno servire per lo stato immunitario, ma non per la diagnostica». E dopo la conclusione del test? «Dobbiamo continuare a prevenire il rischio di contagio fino alla conclusione dell’epidemia - risponde il prof. Gesualdo -. I tamponi devono essere effettuati in setting specifici, in particolare in quelli indicati dalla circolare dell’Inail».

Ma proprio sullo studio in corso al Policlinico (altre Asl, ad esempio la Bat, hanno effettuato campagne di tamponi a tappeto) arrivano dubbi dalla Regione. Nella circolare di lunedì scorso, l’epidemiologo Pier Luigi Lopalco si era espresso contro i tamponi effettuati al di fuori delle indicazioni del ministero della Salute (che li prescrivono solo in presenza di effettivi rischi, e prevedono campagne a tappeto solo a fronte di focolai epidemici).

«Il motivo dello studio del Policlinico - secondo Danny Sivo, medico del lavoro e coordinatore del Sirgisl (i medici del lavoro delle Asl) - si è basato sulla valutazione, riportata da importanti cattedratici, della necessità di individuare circa l’11% di personale stimato come “positivo” in base a elementi di letteratura. Lo studio, cioè, avrebbe dovuto individuare i 220 malati asintomatici tra i 2.000 soggetti testati. Se fossero confermati i tre casi positivi trovati su oltre 200 attesi, la sensibilità statistica del test (la capacità di individuare soggetti malati, ndr) sarebbe dell’1%. Dunque, o il disegno ha sovrastimato in modo elevatissimo il numero di soggetti positivi oppure il test usato non era adeguato a cercare i positivi e ci sono centinaia di falsi negativi in giro. E ciò andrebbe chiarito rapidamente».

Il problema, secondo Sivo, è quello dei falsi negativi. «Ce lo insegnano il caso di Lavagna e quelli pugliesi. Ritengo però di poter dire che la via maestra per tracciare e individuare i positivi è il ruolo attivo del medico del lavoro, finalizzato a verificare l’utilizzo scrupoloso delle regole e dei Dpi e la conseguente prescrizione specifica di tamponi, piuttosto che attendere dietro una scrivania l’esito dei tamponi a tutti». Anche Sivo, come Lopalco, intravede un rischio: «L’esito negativo così esteso può avere come unico risultato, certamente non voluto, quello di tranquillizzare gli operatori sul proprio stato di salute del momento, e dunque con il rischio di abbassare il livello di cautele. Abbiamo sempre più spesso pazienti asintomatici testati (a tappeto) che si positivizzano al secondo o al terzo tampone, con il possibile mancato uso dei dispositivi di protezione dovuto all’esito tranquillizzante dei primi test». E dunque, conclude Sivo, «a mio parere uno studio di questo genere doveva essere costruito su un campione rappresentativo della popolazione lavoratrice, studio che certamente l’Università è in grado di effettuare mettendo i risultati a disposizione di tutta la comunità medica».  

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