In fondo la sopravvivenza all’overtourism, il turismo eccessivo che invade le nostre città, è in due frasi molto meridionali da non ripetere mai più. La prima è: «non ci facciamo conoscere». È una espressione che dimostra una vecchia sudditanza al resto del Paese, come se la diversità del Sud fosse qualcosa di cui vergognarsi. Come se fosse una minorità da tenere nascosta. È l’antica condanna di un Sud che non solo non si ritiene all’altezza, ma che considera difetti tutto ciò che lo riguarda. Presunti difetti che magari per altri non lo sono, se non sono addirittura virtù. In questo il Sud è come l’elefante, tenuto al guinzaglio da una catenella che basterebbe una botta della sua zampona a spezzare. Ma non lo fa perché quella catenella gli è stata messa quando era neonato, una abitudine e una rassegnazione che gli fa considerare naturale la sua condizione di prigionia. Così il Sud nella neonata Italia, quando fu sottomessa anche la sua civiltà.
E invece, accidenti se il Sud si deve far conoscere. Deve far conoscere tutto ciò che altri non hanno o hanno perduto. Il senso di comunità. La capacità di accoglienza. L’ospitalità. La vita di cortesia. Il mito (nonostante) tutto della famiglia e della casa. Il non far mai sentire soli. La sua lentezza non come immobilità ma come correttivo al monoteismo della velocità. Il suo essere tutto un Paese perché un Paese ci vuole, e non solo per andarsene (e magari tornare) come diceva Cesare Pavese. Perché è il Paese con la sua dimensione il custode più convinto delle proprie tradizioni e del proprio modo di essere. Se non disturba il politicamente corretto: i suoi valori. E il Sud li deve far conoscere perché altrove sono tanto smarriti che molti degli «overturisti» vengono per assaporarli, non solo per fare selfie e mangiare da dio.
Ma questa nuova consapevolezza non deve essere compiacimento malmostoso anche di ciò che non va. Non deve essere ostinazione (non infrequente al Sud) a non migliorare come i siciliani del Gattopardo: noi non possiamo migliorare perché ci riteniamo perfetti. Non deve essere confermare di essere brutti, sporchi e cattivi come troppo spesso i meridionali sono stati etichettati.
Così l’altra frase di sopravvivenza all’«overtourism» è ciò che spesso (troppo spesso) si dice a chi al Sud cerca appunto di migliorare. A chi si dà da fare oltre la norma fino ad essere accusato più di velleità che di voler onestamente superare un proprio limite. La frase funziona meglio nel dialetto in cui l’ha espressa Sergio Rubini: addò a da scì. Dove vuoi andare. Come ti permetti di gettare un sasso nella palude cara ai mediocri che cercano alibi. Perché ti agiti tanto, chi te lo fa fare. Chi te lo fa fare: peggio di una iniezione letale a San Quintino. E una frase che vuole segnare un confine insuperabile. Una frase che lascerebbe campo libero a quei turisti che credono (immaginano) di scendere al Sud come si scende fra i buoni selvaggi. Che pensano non solo di turistizzare un deserto, non solo di trovare niente più che l’esotico. Ma di poter colonizzare i nativi con la loro sola presenza, in un rito del Ringraziamento ché neanche il tacchino che per la circostanza si mangia in America.
Nessuno deve avere l’autolesionismo di dire vade retro al turista in bermuda e infradito anche se fa aumentare i prezzi, riduce le città a collezione di b&b, ne stravolge la vita quotidiana e le fa diventare lunapark al loro servizio. Ma costringere il turista perlomeno a non credere di stare in una colonia, questo sì. Prima che il benefico incontro diventi scontro e rifiuto (è avvenuto altrove, vedi Venezia con le contestate nozze del boss di Amazon), bisogna proteggere il nativo, salvarlo come il soldato Ryan del capolavoro cinematografico di Steven Spielberg. La proposta, la molto seria proposta: istituire una Giornata in suo onore (e in sua difesa).
Il risultato è che il Residente, in quel giorno a Lui dedicato, si risenta padrone della sua città. Con gli overturisti che gli rendano omaggio con doni e medaglie a riparazione di tutti i danni che gli fanno. Danni a parte il beneficio per alcuni, dalle case vacanze, agli albergatori, ai pizzaioli, ai gelatai, ai tassisti, agli spacciatori di calamite e ai cabarettisti di strada che li trattano da mezzi impediti ma loro ridono da matti. Pittoresco, pittoresco. Il danno di credere di stare nella propria città e di ritrovarsi improvvisamente in un Club Mediterranée.
Questa giornata del Residente pride, dell’Orgoglio del Residente, dovrebbe essere sponsorizzata (con una tassa di deturpato soggiorno) dalle stesse plebi di incursori di cattedrali e monumenti, di castelli e musei, di spiagge e fast food. A nessuno conviene, come soprattutto a loro, un Residente che, uscito dal suo stato di resa, gli mostri come si vive davvero al Sud al di là della Sala Giochi. Per i turisti, un educational, una lezione da portarsi via più delle orecchiette mai toccate da pollice umano. Per il Residente, la conferma di non essere ospite a casa sua.