È ormai quasi un anno che il nostro ordinamento ha visto l’introduzione del così detto interrogatorio preventivo, previsto dall’art. 291, comma 1-quater c.p.p.
Prima della riforma Nordio, quando il Giudice riceveva una richiesta di applicazione di misura cautelare, decideva (tranne poche eccezioni) senza prima interloquire con l’eventuale destinatario (l’indagato), garantendo quindi quell’effetto sorpresa di cui tanto si è parlato.
Ora le cose sono molto diverse.
La riforma – e questo bisogna concederlo – ha preso le mosse da un intento decisamente garantista almeno nei limiti di quanto si dirà. Infatti, nell’iter che va dalla richiesta di misura alla decisione del Giudice, ha ritagliato uno spazio anche per la difesa, che, almeno sulla carta, ha la possibilità di esporre le proprie ragioni nel tentativo di evitare il peggio.
Che cosa succede, in concreto?
Almeno cinque giorni prima dell’interrogatorio, viene notificato all’indagato il relativo avviso di fissazione, con cui, quindi, quest’ultimo apprende che la Procura intende applicare nei suoi confronti una misura cautelare.
L’Accusa, da parte sua, rompe il segreto investigativo e disvela una parte del fascicolo del procedimento: si apre, quindi, la cassaforte delle indagini, limitatamente agli atti posti alla base della richiesta cautelare.
L’indagato, quindi, può prendere visione degli elementi a suo carico e darne la propria lettura in ottica difensiva.
Sul punto, l’applicazione in concreto dell’istituto ha però fatto emergere un primo profilo di criticità.
Molto spesso infatti i fascicoli cautelari sono immensi: compendiano anni e anni di indagini, spesso tecniche e articolate. Pensare che in soli cinque giorni (dall’avviso all’interrogatorio) l’indagato possa esaminare le carte in modo utile per potersi difendere, è davvero utopistico.
Dopo avere letto quanto umanamente possibile, l’indagato deve, quindi, decidere se avvalersi della facoltà di non rispondere o se sottoporsi alle domande dell’Autorità. Ovviamente, può anche depositare memorie difensive.
Una volta terminata questa fase, il Giudice deciderà se accogliere o meno la richiesta della Procura.
È proprio in questo frangente che la pratica ha offerto alla teoria uno spaccato di realtà, cui forse non si era pensato.
Dopo che l’indagato ha reso l’interrogatorio, e prima che il Giudice decida, si crea infatti un vero e proprio limbo angosciante, tra la libertà e la restrizione della libertà.
Un limbo per cui non è legislativamente prevista alcuna scadenza e che, come si è potuto sperimentare, può durare anche settimane, se non mesi.
L’incredibile assenza di un termine che imponga al Giudice di decidere in un tempo ragionevole, lascia, quindi, l’eventuale destinatario della misura in uno stato d’animo che può definirsi, senza esagerazione, francamente disumano.
Nelle sue prime applicazioni concrete, l’interrogatorio preventivo sta creando nei soggetti coinvolti uno stato di «vita sospesa» massacrante sotto il profilo psicologico.
Una condizione sinceramente intollerabile in una democrazia liberale.
Non sfugge che in un’ottica più di sistema – soprattutto nei procedimenti che riguardano molti indagati – il Giudice si trovi davanti a una congerie alluvionale di carte, e che costringerlo a decidere in poco tempo potrebbe configgere con la bontà e l’accuratezza della sua decisione.
In un’ottica di bilanciamento di interessi, tuttavia, ritengo che sia necessario prevedere un termine perentorio.
Sono proprio le fibre della fase cautelare del procedimento penale a essere innervate di esigenze di rapidità, per evitare che l’inutile decorso del tempo renda vani gli sforzi investigativi profusi sino a quel punto.
Ecco, dunque, che l’assenza di un termine va contro sia le istanze dell’Accusa, che, com’è ovvio, ha interesse a che la misura venga applicata in breve tempo (per non veder evaporate le esigenze cautelari che la giustificano); sia il diritto di difesa dell’indagato, costretto a sopravvivere nelle morse di un’incertezza interminabile, da cui dipende la sua libertà.
La partecipazione ad un procedimento penale è già esperienza massacrante. Ciò vale, a maggior ragione, nella sua fase iniziale, tesa, estremamente delicata oltre che notoriamente sbilanciata in favore della Pubblica Accusa.
In tale spaccato procedimentale, prolungare, senza sapere fino a quando, la ferita che può causare la pendenza di una richiesta custodiale, la rende insostenibile.
È proprio su questo aspetto che si auspica un intervento del Ministro della Giustizia e che sollecito una riflessione di tutte le forze politiche.
Un particolare, accorato, appello mi sento infine di rivolgere da queste pagine al Viceministro Francesco Paolo Sisto. Conosco la sua sensibilità di avvocato penalista, quando in ballo ci sono i diritti delle persone che subiscono un processo (già esso stesso pena, per chiunque). Sono certo che saprà dare a un tema così delicato e urgente, la dignità e le risposte che merita.