Servirebbe un processo di autocoscienza collettiva perché prima ancora di avere risposte sarebbe opportuno porsi delle domande sull’inchiesta che, ieri, ha travolto frange violente e malavitose collaterali ai club organizzati intorno al Foggia calcio. Perché queste pratiche di vita camuffate da tifo, ci fanno intendere meglio la verità pubblica che si manifesta tramite una passione deviata e che spiegano il deperimento del corpo fisico e sociale di una città e di un simbolo della stessa, la squadra di calcio.
Una città che, secondo chi aveva messo a punto questa strategia dell’intimidazione personale e ambientale, doveva soffrire di una sovranità limitata anche nel calcio se si arriva - con il provvedimento assunto dal Tribunale di Bari su richiesta della Dda e del procuratore nazionale antimafia, guarda caso il foggiano Melillo - a «commissariare» il club per il timore di un condizionamento capace di limitarne o ostacolarne l’attività.
Quale attività, rispetto al futuro, al momento non si sa visto che Nicola Canonico ha rassegnato le dimissioni da presidente e annunciato un suo disimpegno economico dalla gestione societaria. L’interrogativo si aggiunge a quelli che hanno accompagnato la stagione sportiva appena conclusa con la vittoria nei play out contro il Messina che garantirà - almeno sulla carta il prossimo campionato di serie C.
L’infiltrazione di criminali per orientare la tifoseria rossonera (per certi versi parte lesa insieme alla società) rappresenta un brusco e penoso risveglio per quei tanti che solo qualche mese fa affollavano i gradoni dello Zaccheria per partecipare ad un altro rito collettivo, quello dei funerali di Samuele Bruno (15 anni), Samuel Del Grande (13 anni), Michele Biccari (17anni) e Gaetano Gentile (21 anni di Barletta ma sostenitore rossonero) morti nell’incidente stradale avvenuto il 13 ottobre dello scorso anno lungo la strada che collega Potenza a Foggia, allo svincolo d’uscita della città lucana, mentre rientravano a Foggia dopo aver assistito alla gara della loro squadra del cuore al Viviani di Potenza.
Passare dal dolore per la perdita di quattro vite (64 anni messi insieme) alla dura realtà di una banda di criminali che voleva lucrare e fare affari sul Foggia calcio e sulla passione per i colori rossoneri, alimentando un clima di tensione dentro e fuori lo stadio la dice tutta sull’avvelenamento dell’ambiente. E del resto lo si era intuito anche dalle parole di tecnici e direttori sportivi del passato quando dichiaravano la difficoltà di far arrivare giocatori - pur in presenza di ingaggi importanti e di una piazza sportiva storicamente riconosciuta - per difficoltà di ordine ambientale.
Troppi gli episodi che, messi in fila, forniscono uno spaccato inquietante della situazione del Foggia calcio di ieri e di oggi: le bombe alla Casillo Grani addirittura nell’epoca d’oro di zemanlandia; l’incendio dell’auto dell’ex capocannoniere Iemmello; le bombe allo stabilimento Tamma di proprietà dei fratelli Sannella ex proprietari dei rossoneri in serie C e B; ed ancora la bomba carta a Busellato (nel 2018), l’incendio all’auto di Garattoni (tre anni fa, ex capitano), i colpi di pistola contro l’auto di Di Pasquale (già capitano nella finale play off a Lecco due anni fa). Una pressione psicologica e pratica che non incoraggia chi ha altre alternative a vestire la maglia rossonera.
In queste condizioni di contesto è evidente che pensare ad un coinvolgimento di imprenditori nella gestione societaria appare se non altro complesso se non difficoltoso. Chi in queste condizioni si espone alle pressioni, intimidazioni, ricatti, abusi, minacce senza perdere la serenità in un mondo che dovrebbe - almeno potenzialmente - regalare piccoli momenti di felicità? Ecco spiegata l’altra faccia della medaglia di quanto scoperchiato dalla Direzione distrettuale antimafia di Bari, a tutela certamente di un patrimonio collettivo con gestione privata come quella del Foggia (di proprietà di Nicola Canonico), ma anche di quei tifosi che vedevano senza guardare e che sentivano senza ascoltare. Tutti immersi nella bolla dello Zaccheria, usati e utilizzati loro malgrado (almeno per chi era in buona fede) per gli affari illegali di un gruppo di criminali che, al di là della verità processuale, sono già condannati a futura memoria per una verità storica che non troverà spazio nella bacheca dei trofei.