L’esperienza di Giorgia Meloni al governo dell’Italia ha segnato, nel bene e nel male, la consacrazione politica di una destra post-ideologica, nazional-popolare ma istituzionale, identitaria ma capace di governare.
Un percorso lungo, a tratti accidentato, ma costruito con determinazione, disciplina, selezione della classe dirigente e, soprattutto, con una narrazione coerente, capace di tenere insieme la «base militante» e il «Palazzo».
Il successo di Fratelli d’Italia non nasce dal nulla: è figlio di una semina paziente, di un’identità forte, ma anche di una strategia di accreditamento presso le élite economiche e internazionali, di una professionalizzazione dei quadri e, soprattutto, di una leadership chiara e incontestata.
Tutto questo, però, non sta accadendo nei territori. Anzi, in alcune città simbolo del Mezzogiorno – Taranto su tutte – Fratelli d’Italia rischia di autodistruggersi, tradendo proprio quel modello vincente che l’ha portato a Palazzo Chigi.
Mentre la sinistra, che aveva dato vita all’amministrazione precedente (poi naufragata), si è abilmente defilata senza nemmeno cospargersi il capo di cenere, provando a ridarsi una verginità politica, la destra si consuma in una guerra interna per logiche tanto banali quanto puerili da piccolo cabotaggio. Sul banco dei sacrificati finiscono persone e progetti, vittime di una inconcludenza figlia dell’improvvisazione.
È pur vero che l’identità, in politica, è importante. Ma se manca la capacità di gestire l’emergenza e pianificare il futuro, l’identità si trasforma in una corazza vuota.
A Taranto, l’identità viene brandita come una clava. Il compromesso è visto come una resa. Il dialogo, come un sospetto.
La conseguenza è una somma di fragilità che si scontrano, invece di cercare una sintesi. Quando nei territori operano dirigenti di piccolo spessore, si finisce per scaricare i problemi sui tavoli nazionali, che non sempre riescono a trovare la quadra. Mentre a Massafra ha prevalso la determinazione di giovani desiderosi di riscatto, a Taranto c’è stato chi ha giocato – consapevolmente o meno – sulla logica del «divide et impera».
Ma quando prevalgono questi meccanismi, muore la politica. E con essa, scompare la possibilità di offrire alla città una proposta seria, credibile, conservatrice nei valori ma modernizzatrice nei fatti. E Dio solo sa quanto ce ne sarebbe bisogno, a Taranto. E quanto fosse atteso questo momento per la destra tarantina.
Così, mentre il governo Meloni affronta con pragmatismo e fermezza sfide geopolitiche, economiche e istituzionali, a Taranto si gioca al piccolo risiko del potere, come se tutto questo non avesse conseguenze reali sulla vita dei cittadini. Questa crisi locale non è solo un inciampo di percorso: è il tradimento dell’eredità di Pinuccio Tatarella, che sognava una destra colta, istituzionale, radicata, alta.
Fratelli d’Italia a Taranto è a un bivio: continuare a camminare verso il burrone, oppure fare uno scatto di maturità, recuperare l’esempio nazionale, e costruire una nuova classe dirigente. Ma servono scelte nette: tagliare il dilettantismo, formare davvero i dirigenti, restituire alla politica locale la sua dignità.
La destra può e deve essere protagonista a Taranto. Ma solo se smette di farsi male da sola. La politica non è per i «pittori della domenica».